|
Come
albero
notiziario
mensile parrocchiale
|
CHIESA
DEI POVERI
Quando,
nominato parroco in questa comunità, ho incominciato a scrivere
queste pagine di apertura del nostro Notiziario, davvero non sapevo
che pesci pigliare… Poi, a poco a poco, mi è sembrato bello di
mese in mese fissare lo sguardo su un tratto del volto della Chiesa:
chiesa dei crocicchi, ovvero chiesa che esce nelle strade, che
non sta rinchiusa in un suo spazio separato… chiesa delle case
e nelle case, ovvero chiesa che condivide con discrezione la vita
delle famiglie partecipando alla gioia e sostenendone le fatiche…
chiesa del dialogo ovvero chiesa consapevole che il bene, la verità
e la bellezza possono fiorire dappertutto e che dobbiamo lietamente
riconoscerlo entrando appunto in dialogo con tutti.
Il quarto tratto o segno caratteristico della Chiesa di Gesù che
vorrei contemplare con voi è: Chiesa dei poveri.
Diverse ragioni mi spingono a questa riflessione proprio in queste
settimane.
La
prima è la difficile congiuntura economica che segna il mondo
occidentale e il nostro Paese. Ho davanti agli occhi due situazioni:
la prima è quella di un giovane professionista che abita la nostra
parrocchia, esperto di finanza con un curriculum di tutto rispetto
maturato anche all’estero, padre di due bimbi e adesso senza lavoro
proprio a causa della crisi finanziaria. L’altra situazione l’ho
incontrata nella nostra chiesa dove un uomo, esprimendosi in un
italiano incerto, mi chiede due candele: immagino voglia compiere
un gesto di devozione. E invece ha bisogno dei ceri perché nella
sua roulotte o camper non ha altro per far luce…
Due
volti, estremi, del disagio sociale accentuato dalla congiuntura
economica.
Questa
situazione ha provocato nel nostro Arcivescovo un interrogativo
formulato proprio nella notte di Natale, nel Duomo affollato per
la Messa di mezzanotte: Io, che cosa posso fare? Conosciamo la
sua risposta: la costituzione di un fondo di solidarietà proprio
per quelle famiglie in stato di disagio per la perdita del lavoro.
La seconda ragione di questa mia riflessione è stata la ricorrenza
del cinquantesimo anniversario di indizione del Concilio da parte
di Giovanni XXIII nel gennaio 1959. Ricordo bene la sorpresa di
quell’annuncio e poi la sua preparazione e finalmente la sua celebrazione.
I miei anni di formazione al sacerdozio, in Seminario, sono stati
accompagnati dal Concilio concluso da Paolo VI proprio nell’anno
in cui sono stato ordinato prete. Per questo mi considero “prete
del Concilio”!!! E di quella straordinaria “primavera della Chiesa”
un tema allora mi coinvolse: quello della chiesa dei poveri. Permettetemi
una citazione della Costituzione conciliare sulla Chiesa:
«Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e
le persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata a prendere la
stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza.
Gesù Cristo “sussistendo nella natura di Dio… spogliò se stesso,
prendendo la natura di un servo” (Fil 2,6-7) e per noi “da ricco
che Egli era si fece povero” (2Cor 8,9): così anche la Chiesa,
quantunque per compiere la sua missione abbia bisogno di mezzi
umani, non è costituita per cercare la gloria della terra, bensì
per diffondere, anche col suo esempio, l’umiltà e l’abnegazione.
Come Cristo infatti è stato inviato dal Padre “a dare la buona
novella ai poveri, a guarire quei che hanno il cuore contrito”
(Lc 4, 18), “a cercare e salvare ciò che era perduto” (Lc 19,
10): così pure la Chiesa circonda di affettuosa cura quanti sono
afflitti dalla umana debolezza, anzi riconosce nei poveri e nei
sofferenti l’immagine del suo Fondatore, povero e sofferente,
si premura di sollevarne l’indigenza, e in loro intende di servire
a Cristo» (n. 8). Lungo testo ma decisivo: la povertà della Chiesa
è anzitutto il modo per essere conforme al suo Signore: Come Cristo…
così la Chiesa. Una Chiesa che insegua modelli di potenza, di
prestigio mondano rischia di esser lontana dal suo Signore. Il
Concilio tentò con fatica di liberare la Chiesa da tutti quei
segni di esteriorità che la assimilavano a una delle monarchie
che ancora sussistono sul nostro pianeta. Caddero tanti orpelli
dalla testa e dalle spalle del Papa: Paolo VI si privò del triregno
o tiara, il copricapo formato da tre corone, la vendita di quel
prezioso ornamento dono dei milanesi, andò proprio ai poveri;
la sedia gestatoria sulla quale il Papa veniva portato finì in
qualche polveroso magazzino, così i flabelli, sorta di giganteschi
ventagli di piume di struzzo che venivano innalzati accanto al
Pontefice, vennero tagliate le lunghe code delle cappe cardinalizie,
molti titoli onorifici vennero aboliti, uno stile di semplicità
investì le celebrazioni… Ricordo d’aver vissuto quella riforma
come un segno di semplicità che restituiva alla Chiesa un tratto
meno regale e più evangelico. Molti non apprezzarono quella riforma
che non fu esente da qualche eccesso e talora produsse sciatteria
e banalità in luogo di sobrietà.
Ma
chiesa dei poveri non vuol dire anzitutto stile di semplicità:
vuol dire Chiesa che ripone la sua fiducia solo e soprattutto
nella forza dell’Evangelo: povera perché “attaccata” all’essenziale.
Mi viene alla mente una scena riferita dagli Atti degli Apostoli:
«Un giorno Pietro e Giovanni salivano al Tempio per la preghiera
verso le tre del pomeriggio. Qui di solito veniva portato un uomo
storpio fin dalla nascita e lo ponevano ogni giorno presso la
porta del Tempio detta ‘bella’ a chiedere l’elemosina a coloro
che entravano nel tempio. Questi vedendo Pietro e Giovanni che
stavano per entrare nel Tempio, domandò loro l’elemosina. Allora
Pietro fissò lo sguardo su di lui insieme a Giovanni e disse:
“Guarda verso di noi”. Ed egli si volse verso di loro, aspettandosi
di ricevere qualche cosa. Ma Pietro gli disse: “Non possiedo né
argento né oro ma quello che ho te lo do, nel nome di Gesù Cristo
Nazareno, cammina”. E presolo per la destra, lo sollevò» (3, 1ss.).
Nelle mani della Chiesa e degli uomini di Chiesa non dovrebbe
esserci né argento né oro ma solo la forza della Parola che restituisce
speranza e rimette in piedi ogni uomo abbattuto e umiliato. Una
Chiesa e uomini di Chiesa che vogliono davvero portare la forza
dell’evangelo devono avere le mani e le tasche libere dal potere,
dalla sicurezza, dal prestigio che può derivare dall’oro e dall’argento.
La scelta di povertà della Chiesa è quindi una condizione per
mettere la propria esclusiva fiducia della potenza dell’Evangelo.
Ancora, Chiesa dei poveri è quella Chiesa che compie la “scelta
preferenziale per i poveri”, li pone al centro della sua premura,
dedica ad essi le sue risorse. Proprio da questa “scelta preferenziale”
è scaturito l’impegno della Caritas a livello nazionale e locale:
non c’è parrocchia che non dedichi alla Caritas e alle sue iniziative
di solidarietà la massima attenzione. La nostra parrocchia è ricca
di molteplici iniziative a favore delle persone anziane, altrimenti
abili, in stato di bisogno. E questa sollecitudine non si chiude
entro i confini del nostro territorio ma si allarga... Proprio
pensando ad una Chiesa dei poveri ho pensato, con gli altri preti
e con il Consiglio pastorale, di dedicare la seconda sessione
della nostra Cattedra dei non credenti a questo tema: come la
crisi economica ci interpella? Quali risorse materiali e spirituali
questa crisi può destare in noi, nella nostra comunità?
Una
delle parole più impegnative pronunciate da Gesù è la prima delle
Beatitudini: Beati i poveri… Difficile questa parola. A molti
è sembrata la consacrazione della miseria, della passività con
la promessa illusoria di un al di là di felicità. Proprio questa
parola ha fatto dire a molti che la religione è oppio per il popolo,
come un anestetico che induce alla rassegnazione passiva. Io credo
che per poter annunciare la beatitudine della povertà bisogna
prima dire la maledizione della povertà come conseguenza dell'ingiustizia,
della prepotenza. Nell’Antico Testamento, soprattutto nella predicazione
dei profeti i poveri sono le vittime dei potenti: «C’è gente i
cui denti sono spade per divorare gli umili e i poveri eliminandoli
dalla terra». Per questo Dio è dalla parte dei poveri: «Non depredare
il povero, perché Dio difenderà la sua causa» (Prv 22, 22).
La Beatitudine della povertà chiede a noi alcune scelte.
1.
Conoscere la geografia delle vecchie e nuove povertà.
Noi apparteniamo a un Paese tra i più sviluppati del mondo e non
abbiamo sotto gli occhi esperienze di vera miseria. Gran parte
delle nostre famiglie hanno ben più del necessario. Forse ci riesce
difficile pensare ai poveri. Accanto al disagio economico, vi
sono altre forme di povertà: quelle legate alla condizione anziana,
all'handicap, alla mancanza di lavoro, alla tossicodipendenza,
alla malattia mentale.
Vi sono poi “nuove povertà” non legate a bisogni materiali: l'uomo
non vive di solo pane, vive di rapporti intensi e significativi,
vive di comunicazione con gli altri, vive di significato per la
sua vita. La mancanza di questi beni produce sofferenza e senso
appunto di privazione: di qui la crescita di patologie di tipo
depressivo. Sempre sul piano conoscitivo: gli orizzonti della
povertà sono mondiali. Gli “extracomunitari”, che sempre più numerosi
cercano di arrivare nel nostro Paese, sono il segno della miseria
che attanaglia intere regioni e continenti. Se queste persone
affrontano i rischi di un ingresso clandestino e di un soggiorno
miserevole nei nostri paesi, è segno che alle spalle hanno lasciato
situazioni ben peggiori.
2.
La povertà interpella il nostro stile di vita sempre alla ricerca
di nuove cose, nuove firme, nuovi prodotti. Qualche voce, anche
autorevole ma scarsamente affidabile, continua a raccomandare
l’incremento dei consumi, il consumismo che ci porta a volere
sempre nuovi oggetti, consumati in fretta e sostituiti subito.
Quale uso facciamo del denaro? Sappiamo distinguere tra spese
necessarie e superflue? Siamo capaci di destinare una quota delle
nostre risorse a chi è davvero nel bisogno? Anche il tempo è un
bene prezioso da amministrare con serietà e, se possibile, mettere
a disposizione di altri: quanto tempo sappiamo dedicare a gesti,
anche semplici, di solidarietà e condivisione?
3.
La persona non vale per ciò che ha ma per ciò che è. Eppure istintivamente
noi apprezziamo di più chi ha di più e tendiamo a svalutare chi
non ha. Sappiamo rispettare ogni persona perché è persona e non
perché ha un ruolo sociale, una posizione prestigiosa, potere,
bellezza, denaro ecc.?
La povertà domanda solidarietà e condivisione. Che cosa siamo
pronti a dare, a mettere in comune con gli altri, in termini di
denaro, di tempo, di attenzione, di amicizia? Quali gesti siamo
in grado di compiere per condividere qualche situazione di bisogno?
4.
Diciamo, infine, che ogni uomo è povero perché è un essere finito,
limitato e che la più terribile povertà è mancare di voglia di
vivere, di gusto di vivere, di ragioni per vivere, mancare di
senso per i nostri giorni: attendere solo la fine senza speranza.
Allora il dono più bello che noi possiamo fare è comunicare la
gioia del Vangelo, la gioia di sapersi creati, amati da Dio. Di
questa gioia è portatrice la Chiesa dei poveri.
don
Giuseppe
|
|
La
tempesta sedata
omelia
di don Giuseppe nella quarta domenica dopo l’Epifania
domenica 1° febbraio 2009 (Sap 19, 6-9; Rom 8, 28-32; Lc 8, 22-25)
Rimandiamo
la lettura dell'omelia su questo sito alla voce "omelie"
|
|
Sermone
su Giovanni 2, 1-11
Le nozze di Cana
Nella
Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, la pastora della
chiesa metodista Eliana Briante, per l’iniziativa diocesana “Scambio
degli amboni” ha tenuto la predicazione du-rante la celebrazione
dell’Eucaristia delle ore 11 di domenica 18 gennaio scorso.
Cari fratelli e care sorelle,
abbiamo festeggiato da poco il Natale, con le storie note, eppure
sempre importanti per la nostra vita di cristiani e cristiane,
di Maria e Giuseppe, del bambino, della mangiatoia, dei pastori.
Ma anche dei magi che si mettono in cammino per dire: «abbiamo
visto la stella e siamo venuti per adorarlo».
I pastori, i magi, Simeone e Anna nel tempio: sono sicuri di aver
trovato il Salvatore, l’inviato di Dio.
Lo stesso vale per coloro che, nel tempio, ascoltano il dodicenne
Gesù che commenta con autorità la Scrittura.
Come
fanno a riconoscerlo?
Noi oggi, veniamo presi per mano dall’evangelista Giovanni che
ci vuole raccontare il primo segno di Gesù, avvenuto durante una
festa. Ed è proprio alla fine del brano che abbiamo letto e ascoltato
che ne troviamo la chiave di lettura: Così Gesù diede inizio
ai suoi miracoli in Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e
i suoi discepoli credettero in lui. L’evangelista Giovanni
vuole che anche noi possiamo credere in Lui.
Ma vediamo un po’ più da vicino il testo e ciò che esso ci racconta.
A prima vista questo miracolo sembra inutile. È stato spesso messo
in discussione. Non è come ridare la vista a un cieco, guarire
un malato, dare da mangiare a delle persone. Che senso ha trasformare
dell’acqua in vino? Quel vino che può provocare dipendenza o scatenare
intemperanze?
Il miracolo delle nozze di Cana è il primo dei sette miracoli
che ci racconta il Vangelo di Giovanni e l’ordine in cui questi
miracoli ci vengono raccontati non è assolutamente casuale.
L’Evangelista ci racconta il primo segno di Gesù, inserito all’interno
di una grande festa, una festa di nozze. Questo è il momento in
cui tutti sono felici, gli sposi, gli invitati, le famiglie (almeno
nella maggior parte dei casi).
E Gesù è invitato a questa festa, va con i discepoli appena chiamati
e con la madre.
Gesù festeggia con loro, gioisce con loro. Non li mette in guardia
dalle difficoltà della vita, non parla dei dolori che dovranno
affrontare, delle liti e delle discussioni inevitabili, prima
in una coppia e poi in una famiglia... Gesù non richiama neppure
alla sobrietà! Egli è con loro e festeggia con loro.
Con
questa atmosfera di festa e di gioia nel cuore, penso alla nostre
realtà: quanto siamo seri, quanto abbiamo paura di lasciarci andare
e gioire, quasi per paura di non essere fedeli al Signore e di
essere superficiali...
Gesù invece festeggia e gioisce. Egli non è accanto solo a coloro
che soffrono, che sono malati, che sono emarginati. Anzi il suo
primo segno, secondo l’Evangelo di Giovanni, è in una festa, una
festa di matrimonio. E molto spesso il matrimonio è preso come
immagine per il rapporto tra Dio e il suo popolo, come abbiamo
sentito anche nella lettura di oggi tratta dal profeta Isaia.
Naturalmente
la nostra vita è fatta anche di problemi e di momenti difficili,
ma il messaggio del testo è: cerca di vedere le cose dalla prospettiva
giusta, capisci a cosa e a chi devi fare appello per uscirne.
Durante le festa di Cana, infatti, succede un inconveniente, il
vino finisce. Maria, la madre di Gesù, è la prima ad accorgersene
e a parlarne al figlio. Gesù le risponde in modo veramente brusco,
ma lei non si fa fermare, non si offende e non si arrende: con
inalterata fiducia dice ai servitori: «fate tutto quello che vi
dirà». E Gesù agisce, in modo non spettacolare, non fa uno show
della sua azione. Se ne accorgono solo i servitori e i discepoli.
Per
l’Evangelista questo miracolo è un segno che rappresenta la pienezza
della salvezza. Abbiamo letto: «vi erano là sei giare di pietra
per la purificazione dei giudei», ma erano vuote: in quelle
giare grandi (80-120 litri), di pietra come le tavole della legge,
si può intravedere la ritualità con cui si pensava di diventare
degni e di purificarsi, la ritualità con tutta la sua durezza
e la sua pesantezza e la sua incapacità a rendere davvero puro
l’essere umano, pensiamo poi a dargli gioia.
L’Evangelista Giovanni ci dice: bisogna riempire d'acqua le giare,
riattingere al pozzo della legge, ma ci vuole la presenza di Gesù,
perché quell'acqua, buona per compiere i riti prescritti, diventi
vino, e vino ottimo, d'una bontà che stupisce.
La grazia del Signore sta in contrapposizione con il rito della
legge: l’acqua viene trasformata in vino.
La vita che ci viene donata in Cristo è una vita piena e, cosa
non poco importante, piena di gioia!
Quante
volte il nostro rapporto, tra evangelici e cattolici è stato regolato
e rovinato dalla legge, dalle regole che noi stessi ci siamo dati.
Gesù invece ci invita a gioire nel suo nome. A essere contenti
gli uni con gli altri. Egli ha trasformato l’acqua in vino anche
per noi.
Gesù
ha trasformato in vino una quantità enorme di acqua, circa 600
litri. Questo punto, da sempre, ha stupito che leggeva il nostro
brano.
C’è anche un aneddoto che vede Geronimo [Gerolamo per i cattolici],
uno dei padri della chiesa, protagonista.
Uno scettico gli chiedeva se alle nozze di Cana la gente aveva
veramente bevuto così tanto vino. E Geronimo risponde: «No, anche
noi ne stiamo ancora bevendo».
Mi piace chiudere questi pensieri con questa immagine che ci vede
protagonisti: beviamo della ricchezza che Gesù ha preparato per
noi, senza rendere noi stessi schiavi di regole e precetti. Gioiamo
gli uni con gli altri per ciò che noi abbiamo e che gli altri
hanno. Viviamo con questa gioia e riconoscenza nel cuore gli incontri
fraterni quotidiani, i doni inaspettati, come la possibilità di
condividere una celebrazione insieme, il dono della preghiera
insieme.
Viviamo con questa consapevolezza e con la speranza che a tempo
debito Gesù trasformerà le cose, trasformerà i nostri rapporti,
cancellerà ciò che ci divide e ci separa, ma quando Lui riterrà
opportuno e non quando lo decidiamo noi. Cerchiamo di rivivere
il dialogo fra Maria e Gesù: noi siamo consapevoli del problema
ma Lui troverà la soluzione.
Il
Signore ci viene incontro e ci dà la pienezza della vita. Egli
ci accompagna in questo cammino.
Amen.
Eliana
Briante
|
|
La
Tenda: un primo anno di attività
Il
prossimo 16 febbraio La Tenda compirà un anno: ci sembra importante
provare a ri-condividere insieme i significati di questa esperienza.
«Creare vicinanza, invito buono, profumo di pane nei nostri
inquieti giorni» erano le parole di don Angelo per inaugurare
lo spazio e accompagnare i primi passi dell’attività. Gli incontri
e le vicinanze create nel corso di questo primo anno sono state
tante: stiamo raccogliendo i primi dati sull’attività, ma i numeri,
anche se importanti, non riescono a raccontare l’intensità delle
vicende umane, le relazioni di prossimità realizzate, il sostegno
dato alle persone più sole e ai loro familiari, i momenti di gioia
che è stato possibile costruire, dove talvolta alcuni anziani
hanno detto “dovremmo allargare un po’ lo spazio: cominciamo a
stare stretti”.
«Una
chiesa dei crocicchi, delle case, del dialogo» sono le parole
che don Giuseppe ha affidato a tutta la comunità in questi primi
mesi della sua presenza. Sono immagini ricche di significato anche
per La Tenda e che tracciano il cammino di questo secondo
anno. “Chiesa dei crocicchi” ci ricorda ciò che ha preceduto La
Tenda quando, nel corso del 2007, nei diversi incontri
e in molteplici contesti ci si chiedeva: «Cosa possiamo fare con
queste risorse per gli anziani?». La comunità parrocchiale con
i suoi diversi gruppi, in collaborazione con Fondazione Aquilone
onlus, ha iniziato a dare una prima risposta: non vogliamo
che l’esperienza si cristallizzi, desideriamo insieme continuare
a cercare come essere espressione della tenerezza di Dio nella
storia, come dare un contributo significativo alla costruzione
del bene comune per questa nostra città. “Chiesa delle case”.
Con una scelta consapevole, La Tenda ha cercato la sua
sede in uno spazio non dentro la struttura parrocchiale, ma in
mezzo alle case, quasi a suggerire che la comunità non può restare
chiusa nel recinto del sacro, ma è chiamata ad essere dentro la
storia, accanto alla vita delle persone. “Chiesa del dialogo”.
La Tenda può essere occasione di dialogo e di confronto
a più livelli. Anzitutto con le persone anziane: essi non sono
solo i destinatari di un servizio, ma sono anche i protagonisti;
il confronto continuo tra operatori e volontari è un altro impegno
importante sul quale abbiamo avviato anche un percorso formativo;
la collaborazione dialettica tra un servizio del Privato Sociale
e i servizi della Pubblica Amministrazione rappresenta un’altra
dimensione di dialogo sulla quale stiamo lavorando.
C’è
un altro dialogo che vorremmo avviare. Nel depliant di presentazione
del Servizio abbiamo scritto che «La Tenda è anche un’occasione
per ritrovare e ricondividere il senso della vecchiaia, per sollecitare
la comunità a porsi le domande ultime sulla vita e a non rimuovere
l’esperienza del dolore e della morte». Forse è il momento di
iniziare un confronto anche con le persone che seguono con passione
la programmazione della “cattedra dei non credenti” per provare
insieme a costruire su questi temi alcuni spazi di pensiero aperti
a tutta la comunità.
Loris
Benedetti,
gli operatori
e i volontari della Tenda
|
|
LAICITÀ E APPARTENENZA ALLA CHIESA
Il professor Pietro Ichino, illustre giuslavorista, recentemente
è stato oggetto di rinnovate minacce per l’incolumità sua e della
sua famiglia. Esprimendogli la nostra cordiale stima pubblichiamo
una sua intervista su temi assai dibattuti, apparsa sul suo sito.
Le sue posizioni, personali, meritano di essere discusse.
Tu
sei cattolico, o almeno ti consideri tale?
La famiglia da cui provengo, il gruppo familiare con cui mi ritrovo
ogni due settimane da decenni, la parrocchia a cui appartengo,
possono certo considerarsi Chiesa cattolica. Ma il patrimonio
spirituale che cerco di coltivare, comprende senza soluzioni di
continuità anche tutta l’eredità dell’ebraismo e del protestantesimo.
Figure come Karl Barth, Dietrich Bonhoeffer o Etty Hillesum sono
per me dei punti di riferimento spirituali non meno importanti
di Sant’Agostino o San Francesco; o, per venire al nostro tempo,
Simone Weil o Davide Turoldo.
Come
vivi la tua appartenenza a questa Chiesa?
Gesù ha scelto come capo della sua Chiesa un pescatore analfabeta,
Pietro, uomo che lo ha amato ma lo ha anche tradito; che si è
pentito e ha pianto, ma in vari momenti ha mostrato di non aver
capito (si è perfino sentito dire da Gesù stesso: “vade retro,
Satana”!). Gesù non ha scelto Giovanni, il discepolo che più amava
e il più colto, l’intellettuale, che sarebbe poi diventato scrittore
del Vangelo. Su questa terra, dunque, di una Chiesa in carne e
ossa c’è bisogno per coltivare la grande, straordinaria eredità
dell’Antico e del Nuovo Testamento, per rinnovarne la memoria.
Ma da questa Chiesa non mi aspetto l’infallibilità (ho anzi il
sospetto che quel dogma tardivo sancito dal primo Concilio Vaticano,
a fine ’800, possa persino costituire un suo peccato contro il
primo comandamento: quasi un pretendere di farsi essa stessa Dio);
non mi lascio turbare più che tanto dai suoi errori, da quelli
che mi paiono suoi ritardi (o suoi ritorni indietro) nel comprendere
i segni dei tempi; mi appare grave, per esempio, il blocco culturale
che impedisce l’apertura al sacerdozio delle donne: presto o tardi
cadrà anche quello. Dalla Chiesa mi aspetto invece l’invito a
istruire e a coltivare la mia coscienza alla luce della ricchissima
eredità trimillenaria di cui essa è depositaria; e anche l’aiuto
a farlo, magari anche attraverso delle sedi di riflessione comunitaria
sui problemi specifici del come si può vivere la fede nel concreto
della vita quotidiana, familiare, professionale, politica. Credo
che chi è indifferente a quell’eredità trimillenaria si privi
di una grande ricchezza. Però ho anche sempre presente la risposta
di Gesù alla Samaritana: «Credimi, donna, è giunto il momento
in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre
… ma … in spirito e verità» (Gv 4, 21-23).
Per
i cattolici la Chiesa non è soltanto “mater”, ma anche “magistra”.
Come ti rapporti al magistero ecclesiastico cattolico romano?
Mi ci confronto sempre con grande attenzione. Milanese qualesono,
ho avuto la fortuna di avere come vescovi Carlo Maria Martini
e Dionigi Tettamanzi, ai quali la chiesa ambrosiana deve moltissimo
e con i quali mi sono sentito sempre in grande sintonia. Mi sono
sentito meno in sintonia con qualche sortita della Conferenza
Episcopale Italiana.
Puoi
essere più preciso?
Qui occorre fare una distinzione molto netta. Come cittadino italiano,
ho il massimo rispetto per gli interventi dei cardinali Ruini
o Bagnasco, o di qualsiasi altro membro della CEI, su scelte politico-legislative
come quelle riguardanti il diritto di famiglia, oppure la bioetica:
hanno anch’essi tutti un diritto pieno di cittadinanza nel nostro
Paese, quindi, sul piano civile, hanno un diritto pieno di dire
la loro su questi temi; su questo piano non vedo nei loro interventi
alcuna anomalia, alcuna scorrettezza. È come cristiano che di
certi loro interventi mi rammarico: perché penso che la testimonianza
della Chiesa come tale non debba mai consistere nell’indicare
la soluzione giuridico-legislativa da preferire, né tanto meno
le concrete modalità preferibili dell’impegno politico, ma soltanto
educare la coscienza dei cristiani, lasciando che nelle scelte
politiche, giuridiche, tecniche, essa resti il punto di riferimento
fondamentale per ciascuno di loro. Pietro Scoppola amava citare,
a questo proposito, un’affermazione del Concilio Lateranense IV
del 1215: “Quidquid fit contra conscientiam aedificat ad Gehennam”.
Ultimamente, la Gaudium et Spes del Concilio Vaticano II ha detto,
con altre parole, la stessa cosa (n. 16): «L’uomo ha in realtà
una legge scritta da Dio dentro al suo cuore: obbedire ad essa
è la dignità stessa dell’uomo e secondo questa egli sarà giudicato.
La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo,
dove egli si trova solo con Dio». Nelle materie che vanno “rese
a Cesare” (Mt 22, 21) le scelte operative devono esprimere i valori
in cui crediamo attraverso la mediazione della coscienza di ciascuno
di noi; il magistero della Chiesa deve collocarsi su di un piano
diverso.
Su
quale piano?
È ancora il Concilio Vaticano II a sancire la distinzione tra
il piano su cui si colloca la testimonianza evangelica, terreno
proprio dei cristiani e della Chiesa in quanto tale, e quello
su cui si colloca il governo della società civile, dal quale è
bene che essa si astenga. Questo significa “a Cesare quel che
è di Cesare”; se per caso Cesare è cristiano, questo influirà,
certo, sulle sue scelte di governo, ma solo attraverso la mediazione
della sua coscienza e nei modi diversi che si renderanno opportuni,
a seconda del contesto politico e civile in cui egli opera. Rendere
a Cesare quel che è di Cesare significa rispettare la laicità
dello Stato e della sua politica. Questa laicità è sostanzialmente
il metodo che consente a tutte le persone di buona volontà di
trovare un terreno comune dove mettere in comunicazione le loro
coscienze ispirate a fedi e filosofie anche molto diverse, per
cooperare nella ricerca delle soluzioni tecniche, politiche, legislative
migliori per il bene comune. Il terreno comune viene meno se c’è
qualcuno che, in quella sede (quella che va “resa a Cesare”),
si presenta con la verità in tasca, già bell’e confezionata e
certificata con il sigillo della conformità alla volontà di Dio.
Per
esempio?
Un esempio: la prostituzione. La coscienza del cristiano in quanto
tale non può non essere scossa da questa forma di mortificazione
della dignità della persona, di mutilazione della sua sessualità.
Ma la scelta della legislazione più opportuna in questa materia
non si può dedurre direttamente dalla Bibbia; essa si colloca
su di un piano diverso; ci potrà dunque essere il cristiano che
in coscienza ritiene più opportuno punire i clienti delle prostitute
con sanzioni penali come si è fatto in Svezia, oppure con sanzioni
soltanto amministrative; o quello che ritiene più opportuno non
ricorrere a divieti ma limitarsi a regolamentare l’esercizio della
prostituzione per limitarne il più possibile gli effetti dannosi;
oppure ancora quello che ritiene preferibile l’astensione da qualsiasi
intervento normativo e l’adozione di altre forme di intervento
operativo per garantire assistenza, informazione e protezione
alle persone più deboli coinvolte. Un altro esempio: Gesù non
è venuto a dirci quale sia la legislazione giusta (“voluta da
Dio”) in materia di adulterio; ci ha solo insegnato come guardare
con amore, da cristiani, alla persona adultera, lasciando alla
nostra coscienza, nelle diverse situazioni storiche e politiche,
nei diversi contesti culturali, la scelta della norma o del comportamento
pratico da adottare. In questa scelta ciascuno di questi cristiani
può trovarsi in piena sintonia con altri cittadini; così come
può accadere che i cristiani stessi su questo terreno politico-pratico
si dividano tra loro, compiano scelte diverse.
|
|
Il
volto della famiglia cristiana
aperta e animata dalla carità
A
cura della Caritas del Decanato Città Studi
In
questi anni, sulla scorta delle lettere pastorali del nostro arcivescovo,
card. Dionigi Tettamanzi, abbiamo riflettuto a lungo sulla famiglia,
luogo quotidiano della formazione e dell’esercizio della carità,
e come Caritas abbiamo seguito un percorso di approfondimento
che vorremmo condividere con gli operatori familiari che operano
in Decanato e con tutti gli uomini e le donne di buona volontà.
Ci sembra bello che uomini e donne, animati dallo stesso spirito,
si possano incontrare per conoscersi, per mettere in comune quanto
maturato, per raccontare le proprie iniziative, per confrontarsi
e per giungere a tratteggiare insieme lo stile di una famiglia
che vive la carità in una dimensione di apertura e di accoglienza
del prossimo.
Proponiamo
un incontro, durante il quale, dopo un momento di preghiera e
di riflessione, ci confronteremo operativamente sulle attività
delle singole parrocchie, in vista di una pastorale d’insieme
che ci aiuti a sentirci tutti figli di un’unica chiesa. Vi invitiamo
tutti, perciò,
Domenica
22 febbraio 2009
presso la nostra parrocchia,
entrando dalla segreteria in via Pinturicchio, 35
dalle ore 16,30 alle 19,30
Rifletteremo
su
La
Famiglia: luogo dell’attenzione premurosa
|
|
Nella
Comunità parrocchiale:
hanno
ricevuto il Battesimo
SVEVA
LEPORE
|
|
abbiamo
affidato ai cieli nuovi e alla terra nuova
LINA
BLANDINI (a. 84)
MARIA DE BERNARDINIS ved. ROSI (a. 84)
RENATA JOLANDA MARIA PASSERINI (a. 52)
ARTURO RICCI (a. 86)
ELSA FABRO ved. MILESI (a. 94)
BENINA MARIA BERTORA ved. BONA (a. 85)
ERCOLE PULZONI (a. 78)
ELISABETTA SENESI CODOLINI (a. 50)
|
|
|