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Come
albero
notiziario
mensile parrocchiale
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il
gigante buono, la madia e il pane dell’angelo
Il
colpo era forte. Un rimbombo. Come di cannone. Qualcuno va dicendo
che un tonfo simile s’era udito anni fa, il giorno in cui un velivolo
in città investì il Pirellone. Questa volta era semplicemente
il tonfo di un botto, e poi a seguire altri, devastanti, nel mezzo
della notte, a Capodanno. Qualcuno poi mi disse che cosa può costare
un botto, di questi che ti sgranano il cuore. E mi sembrò, ti
dirò, insensato. Accuso l’insensatezza. Poi mi interrogo e mi
vado dicendo che forse è perché sono vecchio. O non starò diventando
forse arcigno censore, fustigatore dell’allegria?
Mi
fermo poi a pensare a un altro rimbombo, all’effetto della notizia
di quel prezzo nella mente di chi la vita se la consuma con una
pensione che forse per pudore chiamiamo minima. E che minima non
è, perché non è, diciamolo, il minimo per vivere. Che botto la
notizia! E un po’ mi rattristo.
Tu
mi capisci, mi rattristo, perché questo è solo un episodio, e
quasi un simbolo. Non so se a te qualche volta è venuto di pensare
al-l’effetto che può avere la notizia degli stipendi dei super
manager e delle loro pensioni, effetto bomba, su quelli che la
vita se la campano duramente con la minima.
Si
potrebbe pensare che così vanno le cose. E arrendersi. C’è aria
fredda, gelida, in città e non solo in città. Sarà anche per via
della mancanza di sicurezza. Ma la parola, ti dirò, comincia a
insospettirmi. Se non altro perché se ne stanno riempiendo la
bocca in tanti. Troppi forse. Fino a far presentire un abuso.
Pochi giorni fa mi stropicciai gli occhi, quando il questore della
città o chi per lui, non ricordo, facendo un bilancio dell’anno,
dichiarava che oggi la città è molto più sicura di ieri e che
gli attentati alla sicurezza dei cittadini sono diminuiti e non
di poco. A fronte di questo, diceva, è cresciuta la sensazione
della paura.
Non
possiamo negare che i problemi siano reali, peccheremmo di ingenuità.
Ma ci si dovrebbe interrogare sul fenomeno. Che la paura non sia
anche un effetto di questo gridare all’insicurezza dilatandone
lo spettro? Qualcuno comincia a pensare che gridare all’insicurezza
porti vantaggio a chi grida. E più sono i vantaggi, più si grida.
Da
povero osservatore delle cose piccole mi sembra di capire che
non sia questo il dramma più inquietante del nostro tempo. Se
fosse questo, altro rimedio non ci resterebbe che alzare muraglie.
Nei
giorni ormai vicini al Natale, rientrando una tarda mattinata,
trovai una sorpresa. Alla fine mi dissi: “è passato un angelo”.
Comincio infatti a pensare che alcuni degli esseri che la Bibbia
chiama angeli altro non siano che uomini e donne in carne e ossa,
come quell’angelone che mi trovai quella mattina davanti agli
occhi. Dentro me li stropicciavo. Era lui o no? Era lui. Un tempo
ancor più in carne e ossa, quasi gigante, gigante buono. Pesantemente
smagrito, scavato da trentanove giorni di sequestro in una foresta
delle Filippine, Padre Giancarlo Bossi. Qualcuno ne ricorderà
il volto in uno dei servizi dei nostri telegiornali. Era lui.
Lo ascoltavo. Forse, ancor più, lo guardavo, quasi me lo bevessi
con gli occhi.
E,
dentro le sue parole, alcune che per un attimo mi parve sbriciolassero
la consistenza di tante nostre grida sulla sicurezza. Nella Messa
di mezzanotte a Natale pensando con nostalgia alla sua Payao,
lui avrebbe detto: “Sapete come si sta bene senza niente. Mica
come qua che avete belle case che sono belle prigioni, con allarmi
e spioncini dove si vive blindati, ognuno chiuso nel suo benessere,
senza più sogni e utopie”.
Forse
di tanto in tanto dovremmo chiederci se stiamo diventando o no
più uomini, se la terra la stiamo costruendo più umana o no. E
se ad abitare le case blindate fosse un vuoto di umanità, in assenza
di sogni e di utopie?
Da
povero osservatore delle cose piccole mi sto convincendo che il
dramma più inquietante sia questo: il degrado che fa scuola dall’alto,
nell’indifferenza quasi generalizzata. Vedi la corruzione e subito
vedi la giustificazione. Un tempo la menzogna era chiamata menzogna
e il latrocinio latrocinio, l’abuso di potere abuso, l’arroganza
arroganza, la maleducazione maleducazione. Siamo arrivati allo
sberleffo. Un tempo i corrotti pativano in qualche modo vergogna.
Ora trovano udienza, pontificano dai salotti televisivi, trovano
accoglienza proprio là dove si sventolano bandiere, che sono stracci
strappati dal vento. E si gridano nomi che dovrebbero far arrossire.
Che cosa potrebbe riservarci - penso alle parole del “gigante
buono” - una terra senza sogni e senza utopie?
Dove sta il rimedio? Forse in una sollevazione interiore. Che
parta da noi. Da ciascuno di noi. Perché ciò che vediamo purtroppo
fa scuola. Fa devastazione. Fa devastazione delle coscienze. E
vuoto. Gli spiriti più attenti sono in apprensione, in apprensione
i genitori per le nuove generazioni. Vedo papà e mamme interrogarsi
sui figli. Come sarà il futuro dei figli se persisteranno ad essere
figli dei sogni e figli delle utopie? Come vivranno i figli dei
sogni e delle utopie? Vedo smarrimento negli occhi di padri e
di madri.
Credo in una sollevazione delle coscienze, che ci veda resistenti
ai dominatori di questo mondo e appassionati al vangelo. Che non
è un nome. È la vita di Dio come l’abbiamo potuta leggere in una
vita di uomo.
Con
una vita di uomo come la sua, Gesù ci ha raccontato come dobbiamo
farci uomini, come dobbiamo diventare uomini. Perché è vero che
si nasce uomini, ma è anche vero che uomini si diventa. Forse
è anche vero che qualche volta ci si smarrisce come uomini, se
ne perde l’immagine. Si è fatto uomo e vuole che noi ci facciamo
più uomini, o se volete più umani.
E come non sperare e pregare che ci rimanga una briciola di coraggio,
per chiederci se quello che stiamo cercando, inventando, costruendo,
a livello personale e a livello di società e di chiesa, sia o
no nell’orizzonte di un vero essere uomini.
Il coraggio di interrogarsi. Senza venir meno, senza lasciarci
imbavagliare da disfattismo e indifferenza. Allora sarà sollevazione:
come quella del seme nella terra. Una ragazza come regalo mi ha
lasciato dei semi. Per lenire, diceva lei, un pochino il vuoto
di Piazza Bernini. “Una pianta, distratta, capita che mi dimentichi
di innaffiarla” scriveva “per ora, sta lì e resiste. Ogni tanto
spinge, come se le radici richiamassero attenzione sotto il cemento.
Mi chiede di esserci.”
Oggi
ci viene chiesto di esserci. E di resistere. Là dove siamo. Dove
trovare coraggio?
Un vecchio prete dei monti, mio amico, morto due anni fa, vecchio
di anni ma non di mente, non di cuore, don Michele Do, alla Messa
di fine anno, ventidue anni fa, invitava a raccogliere nel cuore
la dolcezza di tutti i nostri ricordi. E diceva: “Non dimenticherò
mai un Natale passato nell’Eremo di Sorella Maria, dove, in quel
periodo, sulla grande madia, nella grande sala, venivano esposte
tutte le fotografie degli amici lontani: le presenze vive di quelli
ancora pellegrinanti e di quelli che erano già andati oltre, nel
Regno! Come è bello raccogliere i ricordi. Io ho bisogno di ritrovare
questi volti. Credo che questo sia un momento sacro”.
E aggiungeva a scanso di fraintendimenti: “La memoria cristiana,
la memoria religiosa, non è la struggente nostalgia del tempo
perduto, ma sono tutte le ricchezze del nostro passato: tutte
le ricchezze degli affetti, delle presenze, delle cose vissute,
le cose belle e - lasciatemi dire - anche le ore oscure, le ore
di smarrimento, le ore di peccato, non dobbiamo rifiutare nulla.
Non dobbiamo cancellare niente, dobbiamo assumere tutte le cose
perché sono diventate sostanza della nostra vita… I mulini di
Dio macinano ogni cosa, anche il nostro peccato, anche i nostri
momenti di pochezza, di povertà, di oscuramento, di travolgimenti”.
“Meditare non è dunque voltarsi indietro. Il Signore ci dice ‘non
voltatevi indietro’. Gesù, accogliendo creature consunte e sfigurate,
diceva loro: “Alzati e cammina”. Il Signore ci dia il coraggio
di guardare sempre oltre.
In
questi tempi di mediocrità e di indifferenza occorre non cedere
mai l’anima, non cedere alle delusioni, alle amarezze, alle tentazioni
del ripiegamento su se stessi, alla tentazione della fuga. Ci
sono cose morte ovunque, nella chiesa, nella società civile, nel
nostro ambiente. Non cediamo l’anima a queste cose morte. Ma ci
sono delle cose vive e queste dobbiamo far vivere. Cerchiamo di
far vivere le cose che meritano di esistere e di vivere.”
E
allora vorrei quasi augurio per l’anno nuovo unire all’immagine
del “gigante buono” altre due immagini. La prima è la grande madia,
nella grande sala dove sono radunate le fotografie. Come vorrei
che a darci immaginazione e coraggio fosse la grande madia, dove
raccogliamo le memorie, e tra le prime, la prima, quella di Gesù,
e poi quelle a noi più care, madia delle memorie, che sono seme
di vita per noi.
E
l’altra immagine quella del pane dell’angelo. L’angelo al profeta
Elia sconsolato, sul-l’orlo della disperazione, tentato di farla
finita, porta una focaccia, un pane, gli dice: “alzati, mangia
e cammina: hai ancora della strada davanti a te”. A darci immaginazione
e coraggio sia il pane dell’angelo, pane il volto di Dio, pane
la sua Parola, pane il volto dei nostri amici, pane la loro presenza.
Prendiamo il pane dell’angelo e camminiamo verso il monte di Dio.
don Angelo
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Alzati,
prendi la vita e va’
omelia
di don Angelo nella domenica tra l’Ottava di Natale
30 dicembre 2007 (Is 12, 1-6; 1Gv 1, 5-2,2; Mt 2, 13-15. 19-23)
Questo
racconto di Matteo, che va sotto il nome della fuga in Egitto,
ci lascia con tante suggestioni nel cuore ma anche con tante domande.
Una
prima domanda è perché Matteo abbia costruito questo racconto,
che sembra non avere una sua plausibilità dal punto di vista storico.
Oggi la Liturgia, all’interno del racconto, ha dimenticato tre
versetti inquietanti, che vanno sotto il nome di “strage degli
innocenti”. Ma di questa strage di Erode non troviamo alcun riscontro
storico, mentre troviamo riscontro di ben altre stragi, operate
con efferatezza inimmaginabile da Erode, stragi di consanguinei,
figli, fratelli e nipoti, che potessero attentare al suo trono.
Ma questa constatazione, lungi dalla scandalizzarci, dovrebbe
invece farci capire che questi testi hanno un loro genere letterario,
il genere letterario del midrash, dove la verità non è
necessariamente quella del racconto, ma quella che sta sotto il
racconto. Matteo racconta il ritorno della famiglia dall’Egitto
e commenta: “Perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore
per mezzo del profeta: dall’Egitto ho chiamato mio figlio”. Ma
queste parole delle Scritture non erano forse riferite nella Bibbia
al popolo d’Israele? Ebbene a questo bambino l’evangelista Matteo
attribuisce le stesse parole usate da Dio per il suo popolo, schiavo
in terra di Egitto: “Dall’Egitto ho chiamato mio figlio”. E, così
facendo, Matteo ci racconta una verità. Quale? Che Gesù ha rivissuto
la storia del suo popolo.
Nasce questo bambino, ci vuol dire Matteo, ed è subito nella storia.
Subito nella conflittualità che segna la storia degli umani. Per
lui non c’è una storia diversa. Chiamato anche lui a fare i conti
con le trame del potere. Facendosi uomo non si ritaglia una vita
in una zona appartata, in situazioni meno esposte, là dove non
soffino bufere e il vento non sferzi gelido sui volti. Anche lui
sradicato, esule come il suo popolo, uomo dell’esodo come il suo
popolo: stessa vicenda, stesso sradicamento, stesso rischio, stessa
insicurezza.
Cristo
accetta che la vita sia un esodo, sia insicurezza. E, così facendo,
mette sotto accusa un certo nostro modo di sognare la vita, questo
nostro vagheggiare una vita tranquilla, senza sradicamenti improvvisi,
una vita dove l’imprevisto non venga a mettere a soqquadro la
nostra casa e i nostri sogni, le nostre rigide programmazioni.
E invece i verbi che risuonano per tutto il racconto sono verbi
di sradicamento e di movimento. Li abbiamo sentiti: “Alzati, prendi
il bambino e sua madre e va’ ”. Prima in Egitto, e poi nel paese
d’Israele, e poi nelle regioni della Galilea. È un continuo. Grande
Giuseppe - spesso se n’è fatta una figura slavata, slavata e snervata
- grande Giuseppe che sa inventarsi la vita, la sua e quella della
sua famiglia, in situazioni fuori da ogni immaginazione!
Mi
sono detto - le mie sono osservazioni prive di ogni scientificità,
da povero sprovveduto osservatore del mio tempo - mi sono detto
che forse oggi, più di ieri, noi siamo chiamati a sradicamenti.
Non so se sbaglio, ma fino a qualche decennio fa la nostra vita
era in progetti sicuri, nel segno di una maggiore stabilità, le
cose succedevano allo stesso modo, con lo stesso ritmo. Oggi viviamo
una stagione diversa: pensate quanti sradicamenti! Sei qui e poi
sei là. Sradicamenti non solo geografici, ma interiori, spirituali:
“Alzati prendi il bambino e sua madre e va’ ”. Alzati, prendi
la vita e va’. E che cosa succede? Perdonate, la riflessione dovrebbe
essere forse più profonda della mia.
E che cosa succede? Che noi, abituati all’immobilità o, se volete,
abituati a programmare - tutto deve stare nei programmi! - andiamo
in crisi. Forse anche per questo la nostra è una stagione che
si segnala per l’infierire delle depressioni. Come se noi facessimo
resistenza a stare in una vita come esodo.
Non
voglio colpevolizzare nessuno. Perché non voglio dire che sia
facile stare in una vita che ti chiede sradicamenti e invenzioni
continue: “Alzati, prendi il bambino e sua madre e va’ ”. Voglio
però dire che, se riconoscessimo che questa è la vita, che nient’altro
che questa è stata la vita del Figlio di Dio, forse saremmo più
riconciliati con noi stessi, con la vita e con Dio. Con Dio che
per sé non ha preteso una vita diversa.
E,
così facendo, ci ha ricordato anche una cosa bellissima: in che
cosa confidare? Che la vita sia quella che immaginiamo noi? Sarebbe
un fragile confidare! No, Matteo ci insegna a confidare in Dio.
Dovunque ti porterà la vita. Non ce lo aveva oggi ricordato anche
il profeta Isaia? “Ecco, Dio è la mia salvezza, io confiderò,
non temerò mai, perché mia forza e mio canto è il Signore, egli
è stato la mia salvezza.”
Voi
mi capite, confidare in Dio, ci rende liberi, non imprigionati,
nemmeno nei nostri progetti. In ascolto, come Giuseppe, dei sogni.
Dei sogni che ci abitano.
Uomini
e donne dell’esodo, ci risuonino dentro e ci accompagnino le parole
del Salmo: “Il Signore veglierà su di te, quando esci e quando
entri. Da ora e per sempre” (Sl 120,8).
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Nessuno
è un’isola, Di quali famiglie parliamo.
La persona e le sue relazioni.
Relazione
dell’incontro tra famiglie tenutosi il 3 Dicembre scorso
presso il salone dell’oratorio
Siamo
arrivati in ritardo con questo incontro, l’ultimo era stato il
28 maggio, più di sei mesi fa.
Ci siamo arrivati anche col fiatone, comunicandolo all’ultimo,
senza riuscire a essere su “Come albero”, senza riuscire a recuperare
la mailing list che le persone ci avevano lasciato per informare
anche i più lontani e quelli che dalla chiesa magari non passano.
Siamo stati un po’ colpevolmente disorganizzati e di questo ci
scusiamo di cuore con tutti quelli che sapendolo per tempo avrebbero
potuto partecipare. Siamo stati un po’ affannati e arruffati nell’organizzazione,
come siamo spesso nella nostra vita, come spesso organizziamo
anche la nostra vita famigliare. Ciò nonostante abbiamo avuto
in dono un incontro intenso di cui ora cercheremo di farvi partecipi,
facendo almeno in parte ammenda per l’organizzazione un po’ maldestra.
L’intensità dell’incontro forse è stata anche legata al fatto
che eravamo in tutto 23 persone. Un piccolo gruppo che poteva
stare vicino e raccolto.
Ha
introdotto la serata don Angelo: attraverso le sue parole ci ha
portato una riflessione sulla distanza, a volte percepita dalla
gente, tra ciò che viene detto, proclamato dai documenti ufficiali
e ciò che è il mondo concreto e reale in cui viviamo. In questa
riflessione don Angelo si interrogava su come possiamo camminare
oggi a fianco delle famiglie nella bellezza del loro cammino,
ma anche nei loro reali disagi.
Le nuove situazioni che incrociamo non possono essere guardate
con uno sguardo asettico e gelido come se fossero situazioni anonime,
da giudicare, con uno sguardo “da lontano”. Queste “situazioni”
sono vite, sono famiglie, sono storie, cariche di una sofferenza
che spesso nei documenti non viene contemplata o non si scorge.
Si può parlare, per esempio, di separati, senza scorgere tutta
la fatica, il dolore, le lacerazioni vissute per giungere a questo
passo, che può in alcuni casi essere l’unico percorribile.
Il valore dell’indissolubilità del matrimonio non può essere brandito
unicamente e primariamente come un valore giuridico, se poi manca
un’attenzione a come possiamo, come comunità, essere presenti
e vicini nell’accompagnare le persone, le coppie, in questo cammino
di vita insieme che può essere talvolta davvero accidentato, al
di là di ciò che si immaginava il giorno del matrimonio. Don Angelo
si interrogava e ci interrogava su come possiamo essere una comunità
che crede nel camminare insieme indicando il passo proponibile
in una concreta situazione.
Una comunità, ci diceva, sta dentro due dimensioni, l’ideale e
la realtà. È importante annunciare l’ideale perché questo aiuta
a tenere alto lo sguardo all’orizzonte, senza abbassare il tiro,
aiuta a scorgere possibilità di pienezza e di bellezza al di là
della schiacciante fatica quotidiana. Ma l’ideale deve anche fare
i conti con la vita, con la realtà.
La comunità allora deve educare alle cose belle e alte, ma al
contempo accogliere la fatica e il fatto che a volte non ce la
si fa. Se stiamo ai vangeli, e ricordiamo come agiva Gesù, non
si può dimenticare che il Signore non vuole il fallimento per
nessuno, che la sua promessa è più grande dei nostri personali
smarrimenti. E se questo è vero in altri campi, non può non essere
vero anche in questo.
Nella chiesa possiamo registrare sensibilità diverse che nascono
dall’aver incrociato o meno le storie delle persone, dalla maggiore
o minor vicinanza al loro vissuto. I pastori vivono vicino alle
persone, ne conoscono la vita. Ne conoscono le gioie e le fatiche.
Possono accompagnare, possono proporre un percorso che rimanga
aperto al divenire.
La riflessione è aperta e voci autorevoli si vanno interrogando
sulla prassi della chiesa antica, sulla possibilità di ricavarne
indicazioni per l’oggi. Ci sono voci che si chiedono come giudicare
la prassi delle chiese ortodosse, secondo le quali come può accadere
in un matrimonio una morte corporale così può accadere una morte
psichica e quindi aprono a una possibilità ulteriore, dopo un
congruo cammino penitenziale. Forse vale la pena di ricordare
che ogni caso va guardato nella sua tipicità, con la vicinanza
che ogni vita chiede per essere compresa e accompagnata nella
sua unicità.
Spesso i separati hanno un’idea di chiesa che deriva da ciò che
leggono sui giornali o sentono in televisione. Di qui incomprensioni
e allontanamenti, legati sovente alla tristezza e qualche volta
alla rabbia che ne nascono. Tutti insieme però possiamo - anche
noi! -, dare un’immagine diversa, l’immagine di un altro volto
di chiesa. Questo succederà se in ogni occasione il pensiero sarà
a che cosa faceva Gesù, a che cosa lui diceva, a come lui si atteggiava.
Questa è la nostra forza, ciò a cui far riferimento.
Negli
interventi che sono seguiti si sono focalizzati alcuni temi. Grazie
alla presenza di persone che hanno vissuto l’esperienza della
separazione, come coppie o come figli, e che generosamente si
sono narrate, molta dell’attenzione è stata concentrata sul problema
delle nuove famiglie che nascono dalle separazioni e dai divorzi.
In realtà le nuove famiglie con cui ci relazioniamo oggi sono
molte. Sono state ricordate anche le famiglie di fatto, sempre
più numerose, di cui rischiamo di sapere e capire poco, e a cui
forse potremo dedicare un altro incontro, perché sicuramente molti
giovani intorno a noi vivono questa realtà e potrebbero farci
partecipi del loro percorso di vita in un cammino condiviso.
È stata portata anche l’esperienza di essere una famiglia fondata
sul matrimonio civile ma dove uno dei due è credente. È stato
narrato come tale situazione sia stata vivibile per il dono di
aver incontrato pastori capaci di apertura e di accoglienza, lontani
dalla presunzione di bollare sbrigativamente l’altro con il marchio
di diverso, o come portatore di una differenza che è solo vuoto
e mancanza.
Molti,
come dicevo, i temi legati al problema delle separazioni: ci sembra
opportuno registrarne qui alcuni emersi nell’incontro.
Matrimoni morti, separazioni vive. Quando un matrimonio
è “morto”, una separazione può divenire occasione di vita, può
essere l’unica cosa viva che si può ancora fare. Allora, pur nel
dolore e nella fatica, la separazione può divenire un’opportunità
di riscoperta di sé. Una scelta che dà la possibilità di ricollocarsi
come individui, come genitori, come figli. Se si riesce a farlo
nel rispetto di tutti e avendo a cuore l’integrità di tutti, può
divenire occasione di miglioramento di se stessi. Merita rispetto
perché è dolorosa.
Essere
accolti. La separazione può essere occasione per sentirsi
esclusi dalla comunità di cui facevi parte. Negli anni del matrimonio
e della nascita dei figli è stata la tua comunità e ti ha permesso
magari anche di riavvicinarti alla fede, di rifarla tua. Poi però,
nel momento della separazione ti volta le spalle aggiungendo dolore
al dolore.
La comunità che accoglie, che sta con te anche nel momento in
cui non si può far altro che stare con quello che c’è e accettare
ciò che è successo, ti permette di cercare come rispondere a questa
cosa che è avvenuta nella tua vita e in quella della tua famiglia.
Ti permette di sentire che sei di nuovo dentro un percorso anche
se ancora non sai dove questo percorso ti porterà. Però sei sulla
strada e non sei solo, c’è una comunità che ti accoglie e cammina
con te.
Lo
scontrarsi col limite. La sofferenza nella separazione nasce
anche dallo scontrarsi col limite e dal fare fatica ad accettare
questo limite. Può essere molto duro, ma è reso ancor più duro
dall’avere intorno persone che non sono in grado di accettare
questo limite, che non riescono a vedere neppure il loro e che
con questo atteggiamento ti rendono più solo e più affaticato
nel tuo percorso, che tu sei costretto ad affrontare.
Progetto di coppia, progetto di famiglia. La fine del progetto
di coppia rischia di trascinare via con sé anche il progetto di
famiglia. Ma le famiglie separate restano famiglie, nuovi nuclei
famigliari in cui con un modo nuovo far vivere ancora quel progetto,
rivisto, rivisitato, ma ancora un progetto di famiglia. Ancora
una volta lo sguardo esterno che ti bolla come separato se non
addirittura come single, ti rende più difficile questo percorso
dove invece è fortemente sentito il bisogno di essere guardati
come famiglie.
La
persona è centrale. Forse tutto sta nel riportare al centro
la persona. Chi per esperienza lavorativa vede tante coppie giovani
separarsi, vede giovani persone che non riescono a trovare dentro
di sé le risorse per riprendere il cammino, che tornano alle famiglie
di origine. Allora forse c’è anche un errore educativo. Siamo
famiglie iperprotettive. I ragazzi oggi, pur nell’oggettività
della difficoltà economica in cui vivono, fanno fatica a scegliere,
a scommettere, a fidarsi rimandando all’infinito l’inizio della
loro vita.
Riportare al centro la persona allora può avere più significati.
Educativamente riportare al centro la persona è insegnare a fidarsi
di ciò che le persone hanno dentro di sé, come risorsa per essere
felici, per trovare felicità e senso, mentre l’educazione di oggi
pone la felicità delle persone in ciò che c’è fuori di loro, in
ciò che si ha. Questo fa sì che le nostre vite siano prese da
tutto ciò che c’è fuori di noi, che non siamo più in grado di
partire da noi stessi.
Ma mettere al centro la persona significa anche che la persona
deve potersi trovare dentro e ritrovarsi quando la vita impone
cambiamenti. E che gli altri devono imparare a guardare alle persone
e non alle categorie: separato, divorziato, convivente. Guardare
dentro la persona e il suo vissuto perché “Il sabato è per l’uomo
e non l’uomo per il sabato”.
Il
giudizio. Quello che più si vive sulla propria pelle di separati
o di figli di separati è il giudizio. Un giudizio che arriva dall’alto
e che ti schiaccia. Un giudizio per cui l’ideale proposto diventa
non più un aiuto ad aprire l’orizzonte, ma qualcosa che ti schiaccia
perché colpevolmente tu non l’hai saputo raggiungere o conservare.
Uno
degli ultimi interventi portava l’attenzione sullo sguardo buono,
non giudicante, compassionevole che guarda alla fine di un matrimonio
come a un “non ce l’hanno fatta”. E poi si interrogava sul perché
non ce la facciamo? Dove il cammino si è intoppato? Che cosa
si blocca e blocca il matrimonio? È importante interrogarsi e
capire questo. È importante farlo per noi e i nostri figli.
Ci
sembra, questa domanda, un modo giusto di continuare questa riflessione
che per limite di tempo abbiamo dovuto interrompere. Su questo
tema ci ritroveremo la prossima volta. Con la promessa di essere
più solleciti nella comunicazione della data.
Lucia
Centolani per la commissione famiglia
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Buon
Natale 2007 da me, Sandrino di anni 8 nel Natale 1950.
Quando
ero in terza elementare la mia maestra ci fece scrivere una lettera
a Gesù per ricevere da lui un regalo a Natale ( e poi la diede
di nascosto ai nostri genitori). Io e il mio compagno di banco
scrivemmo di avere come regalo un camioncino fantastico che avevamo
visto in un negozio.
Durante il mese di dicembre il mio compagno, figlio di un imprenditore,
si comportò molto male in classe e la maestra gli disse che se
faceva così Gesù non gli avrebbe portato il regalo che aveva chiesto.
Io invece cercai di comportarmi bene per ricevere il regalo.
Arrivò la notte di Natale; io al mattino mi alzai, andai in cucina
e, invece del camioncino che avevo chiesto, trovai un cavallo
a dondolo. Salii sul cavallo a dondolo, cominciai a dondolarmi
agganciandomi alle sue orecchie. Mi resi conto che una era rotta.
Mi venne in mente che qualche settimana prima io ero andato da
quel mio compagno e salito sul suo cavallo a dondolo gli avevo
strappato un'orecchia. Mi resi conto che quello era il cavallo
a dondolo rotto che il mio amico aveva buttato via.
Andai allora subito a trovare il mio compagno.
Arrivato in casa sua vidi che a lui Gesù aveva portato il camioncino.
Tornai a casa mia, andai al presepio, presi in mano la statuetta
di Gesù bambino e, gridando, dissi : “Perché non lo hai portato
anche a me che sono stato più buono a scuola ?”
E la buttai per terra.
Mia mamma mi prese in braccio. Mi portò nella stanza da letto,
di nascosto dalle mie sorelline, e, piangendo, mi disse : “Sandrino
ti confesso che i regali di Natale non li porta Gesù ma dobbiamo
comprarli noi. E tu sai che noi non abbiamo soldi. Allora il tuo
papà è andato a raccogliere quel cavallo a dondolo, lo ha pitturato
e lo regala a te”.
Allora io, piangendo, le dissi: “Mamma perché non me lo avete
detto prima? Voi sapete che io non avrei mai chiesto a voi di
spendere soldi per farmi un regalo. E a Gesù avrei chiesto qualcosa
d'altro, non un regalo”.
Andai a raccogliere la statuina di Gesù bambino e la rimisi nel
presepio.
E cominciai a pensare fin da allora che quelli che nella loro
vita hanno molte cose belle non le hanno perché amati da Gesù
che gliele regala, ma solo perché sono ricchi.
E ho sentito invece Gesù vicino a me e agli altri poveri del mondo.
Sandro Artioli
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La
festa e il festeggiato in un angolo
Mi
sono sempre domandato come si possa passare il proprio compleanno
senza ricevere alcun dono dai propri cari. Sono una persona fortunata
che non ha mai vissuto un’esperienza simile, così comune per milioni
di altre persone, a cui probabilmente non manca l'affetto dei
propri cari, ma che non hanno semplicemente avuto la fortuna di
nascere dove, e quando, sono nato io.
Questa esperienza del compleanno “de-donizzato” non l'ho mai avvertita
di persona, ma me la sono sempre immaginata, nella mia ingenuità,
come qualcosa di molto frustrante e doloroso. In una società come
la nostra il dono dice più di mille parole. “L'importante è il
pensiero...”: balle. E lo sappiamo tutti. Oggi il pensiero non
conta nulla: quel che conta è la volumetria e il prezzo del regalo.
Il Natale è oggigiorno la prima grande vera festa commerciale
che si stia imponendo in tutto il mondo: da Kuala Lumpur a Los
Angeles, passando per Roma, tutti sanno cosa sia il Natale e spesso
lo festeggiano. Dove il Vangelo non ha fatto breccia è giunto
Babbo Natale a diffondere il proprio Verbo.
Checché se ne dica, o pensi, è innegabile constatare come Babbo
Natale sia, da tempo, il vero Signore del Natale. Il legittimo
proprietario, un tale Gesù di Nazareth, è stato messo alla porta
parecchi anni addietro. Giusto per spirito di cortesia, visto
che a Natale siamo tutti più buoni, ci ricordiamo, talvolta e
controvoglia, come sovente capita al sottoscritto, di recarci
a fargli visita per un'oretta, giusto il tempo di una Messa, prima
di rimetterci intorno all'albero, ormai assurto a Simbolo per
eccellenza della festa, estromettendo il Presepe, oggigiorno considerato
un mero oggetto di folklore ecclesiastico, a scambiarci i doni
portatici da Babbo Natale.
Ricordo che da bambino, all'asilo, intesi per la prima volta cosa
volesse dire una guerra di religione: il partito di Babbo Natale,
del quale io facevo parte, doveva fronteggiare uno sparuto gruppetto
di rivoltosi che propugnavano l'idea di un tal Gesù Bambino, un
noto brigante dell'Iperuranio datosi alla macchia, che sarebbe
stato il legittimo detentore della festa e della conseguente consegna
dei doni. Si osava insinuare che Babbo Natale sarebbe stato un
impostore. Il Papà del Natale avrebbe usurpato il trono a qualcun
altro. Non c'era spazio per il dialogo, l'accusa non poteva che
essere lavata con il sangue (metaforicamente... ma non troppo).
Ovviamente alla festa religiosa nessuno ci pensava: manco si sapeva
cosa fosse. L'importante, sin da piccoli, e in questo siamo poco
mutati, era guardare al concreto: i regali.
Il partito di Babbo Natale poteva produrre prove decisamente concrete
e convincenti: innanzitutto il vecchio con la barba bianca era
noto a tutti quanti, anche ai rivoltosi del partito di Gesù Bambino
(del quale si vociferava fosse il gregario, in un vano tentativo
messo in atto dalle maestre per conciliare le due fedi). La sua
immagine era a ogni angolo di strada, su ogni confezione, su ogni
cartello che comparisse in città nel mese di dicembre (ma anche
prima). Anche la tv sembrava interessata a produrre prove della
sua esistenza: film e cartoni animati ce lo mostravano, rigorosamente
vestito di rosso e con la barba bianca, indaffarato a prepararsi
per quell'unica, ma faticosissima, giornata di lavoro. Molti di
noi affermavano di averlo visto di persona e di esser stati testimoni
dei suoi miracoli: era apparso dal nulla, accompagnato da una
melodia soave, e nel nulla era scomparso, nel frattempo che noi
aprivamo i regali. Il suo staff delle pubbliche relazioni, un
anno che ci comportammo particolarmente bene con le maestre, fu
pure in grado di portarcelo in veste di conferenziere nel salone
dell'asilo! Ricordo come fosse ieri il suo ingresso trionfale
tra ali di folla festante: Babbo Natale era sceso tra noi comuni
mortali per salvarci dallo spettro della dannazione: un Natale
senza regali.
Il partito di Gesù Bambino non poteva produrre nulla di tutto
ciò. Chi era costui, questo usurpatore? Chi lo aveva mai sentito?
Voci di corridoio alludevano a una sua nascita in un paese lontano,
tra un bue e un asino. Era quindi povero e questo già bastava
a noi piccoli snob per farcelo apparire antipatico. Questo bambino
sarebbe stato, secondo le dicerie dei membri del suo partito,
molto buono, oltre che dotato di poteri magici, e per far felice
tutti gli altri avrebbe deciso, nel giorno del suo compleanno,
che coincideva con il Natale, di portare regali a tutti i bambini
del mondo. Tutto qui? Un bambino povero e sporco, seppur capace
di fare magie, contro Babbo Natale? Ovviamente non c'era partita.
Specie considerando il fatto che questo Gesù Bambino non compariva
nei cartoni animati e nei film. Non lo vedevamo sulle bottiglie
della Coca Cola né le sue sagome svettavano tra le luminarie dei
viali. Era come per un adulto non trovare menzione del Cristo
nei Vangeli: per i bambini le possibili prove dell'esistenza di
Gesù Bambino erano su Canale 5 e sulle scatole dei panettoni.
Insomma, come poter credere alla favola di Gesù Bambino?
Ho 25 anni. Mi guardo intorno e mi dico: in fondo in fondo, nulla
sembra cambiato a parte la mia età anagrafica e la visione delle
cose. La sostanza è però rimasta la medesima. Il Natale continua
a essere, e ritengo che lo sia sempre di più, il regno incontrastato
di Babbo Natale. Gesù, il legittimo proprietario della festa,
ancora oggi è, per me, e credo pure per molti di voi, in secondo
piano.
Oggi Natale vuol dire regali. Non vuol certo dire Natività del
Signore. Perché mentirsi vicendevolmente? Io per primo riconosco
come il pensiero del Natale, salvo rari casi degni di lode, sia
per associazione legato alla prospettiva materiale dei regali
piuttosto che al suo significato spirituale. Natale vuol dire
raccontarsi reciprocamente di essere tutti più buoni e generosi
salvo poi farsi venire un'ulcera per la frenesia dello shopping.
Il dono non è più un pensiero che produce allegria, l'idea di
rallegrare una persona cara tramite un regalo gradito. Oggi il
dono è, per molti di noi, un'ossessione: “devo fare i regali di
Natale!”. “Devo”, non “voglio”. È ancora dono qualcosa che avvertiamo
come una sorta d'imposizione, dall'alto, di una dimostrazione
d'affetto verso qualcuno? Pochi credo potrebbero rispondere affermativamente.
Ma la nostra coscienza appare come anestetizzata dinanzi a tutto
questo. Non passa Natale che non si odano, come voci che gridano
nel deserto, prediche e sermoni, da parte di sacerdoti e di laici,
che ci mettono in guardia da questo spirito perverso del Natale.
Come ogni anno le voci cadono inascoltate. Eppure ogni anno qualcosa
permette loro di levarsi nuovamente per dare a noi poveri illusi
la speranza, oserei dire la fede, che qualcosa possa cambiare
nel mondo, a condizione che parta da noi stessi, che il cambiamento
avvenga in primis nel nostro animo.
Ma, nel quadro generale, queste voci non vedono realizzarsi quanto
spererebbero. E la cosa più grave non sta in questa assenza della
realizzazione quanto nel fatto che tutti noi avvertiamo, in fondo
alla nostra coscienza, come qualcosa nel magnifico mondo del Natale
commerciale strida, senza però fargli seguire una riflessione
sincera che sfoci in un ribaltamento di prospettive, in una riconquista
del vero e sincero spirito natalizio, quale Natività del Cristo.
Spirito che io per primo fatico terribilmente a recuperare.
Sentiamo questo stridore, eppure... Nulla cambia. Perché noi non
cambiamo. Anno dopo anno. Uscire dal vortice sfrenato del Natale
commerciale equivale a disintossicarsi dal nostro mondo, dal nostro
stile di vita, dai nostri schemi di pensiero, del quale il Natale
non è che l'apogeo. Difficile anche solo a pensarsi, figuriamoci
a farsi.
Tra montagne di pacchetti regalo non ne scorgiamo nemmeno uno
- nemmeno uno! - per il vero festeggiato che sta lassù, appeso
ad un legno, anche il giorno del suo compleanno, perché forse
ci è più comodo tenerlo inchiodato su quella croce che vederlo
scendere a camminare tra di noi. Gioiamo del compleanno di un
altro per scambiarci regali tra di noi, dimentichi del festeggiato:
che immagine orribile! Provate a immaginare che la vostra festa
di compleanno finisca semplicemente per essere uno scambio reciproco
di doni, quasi esclusivamente futili, che passano di mano in mano
senza mai toccare le vostre. Difficilmente riesco a immaginare
una realtà più frustrante e più incomprensibile. Il festeggiato
messo in un angolo, dimenticato, per la nostra vanità e ingordigia.
Non un solo dono. Giusto il pensiero di omaggiarlo, stancamente,
tra mille sbadigli, con la nostra presenza alla celebrazione della
sua nascita: un po' come se ci piegassimo, di malavoglia, ad assistere
allo spegnere le candeline sulla torta. Eppure il suo giogo è
leggero e non sembra serbare rancore: non esige doni o sacrificio,
ma misericordia, un termine che si ode sempre meno tra migliaia
d'altre parole. Forse, se ci avesse domandato una Playstation
lo avremmo accontentato più di buon grado.
Matteo Dalvit
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NATALE
AMARO PER TROPPI BAMBINI
ACCADE A MILANO (E NON SOLO)
Le cronache dalla città ambrosiana riferiscono di tragedie, violenza
e discriminazioni a danno dei più piccoli. La morte di una ragazzina
a causa della miseria, un neonato abbandonato in un cassonetto,
l'impossibilità a frequentare le scuole materne comunali per i
figli degli extracomunitari non in regola con il permesso di soggiorno.
Ragazzini costretti a lavorare. Il tutto nei giorni in cui dovrebbe
essere festa, specialmente per loro.
di
don Davide Milani, responsabile dell’Ufficio Comunicazioni Sociali
della Curia di Milano.
Le
brutte storie che coinvolgono i bambini suscitano indignazione
e fanno notizia, sempre. Ma a Natale queste tristi vicende provocano
un supplemento di riflessione. Alcune notizie di queste ore macchiano
il candore della festa, stridono al cospetto delle mille premure
che a Natale si dedicano ai piccoli.
Sabato
22 dicembre una ragazzina egiziana è morta nella sua casa a Milano,
intossicata dal monossido di carbonio emesso da una malconcia
stufetta a gas e la cuginetta di 5 anni è in gravi condizioni.
Sempre a Milano, si "scopre" in questi giorni che i figli degli
extracomunitari non in regola con il permesso di soggiorno non
possono iscrivere i figli in una delle 170 scuole materne comunali.
A Cassano Magnago, nel varesotto, un neonato probabilmente italiano,
abbandonato in un cassonetto dei vestiti usati, viene ritrovato
semi assiderato da due sudamericani.
Problemi che non riguardano solo la città ambrosiana e il suo
territorio. Ires-Cgil e Save The Children hanno presentato nei
giorni scorsi una ricerca sull'impiego dei minori nelle attività
lavorative. I dati sono agghiaccianti: in Italia sono 500mila
i piccoli lavoratori tra gli 11 ed i 14 anni. Non è impiego episodico:
faticano più di otto ore al giorno, più giorni a settimana e per
diversi mesi all'anno.
Ancora,
sempre a livello nazionale, la legge finanziaria recentemente
approvata dal Parlamento non contiene una misura fondamentale
di aiuto per i bambini disabili: il riconoscimento della pensione
di reversibilità dei genitori dei portatori della sindrome di
Down.
Poi
una serie di violenze che non giungono a "fare notizia" - a Milano
e nel resto d'Italia, a Natale o durante tutto l'anno - perché
non denunciate, passate sotto silenzio. E tutte le sofferenze
causate dalla miseria, che spesso lasciano durature conseguenze
sui più piccoli.
Non
è possibile - sempre e particolarmente a Natale - restare indifferenti
davanti a simili fatti. Perché tanto è possibile fare per attenuarli,
diminuirli, renderli meno drammatici.
Lo ha ricordato l'Arcivescovo di Milano cardinale Dionigi Tettamanzi
nel recente discorso di S. Ambrogio: «L'uomo del cuore, l'uomo
interiore e sapiente, mentre sa vedere e riconoscere i bisogni
e le domande degli altri, richiama ciascuno alla propria responsabilità.
Con il suo sguardo possiamo vedere quanti non hanno lavoro e casa
e raggiungere tanti altri poveri, "nascosti" alla vista, in quartieri
anonimi, talvolta in case degradate; poveri rassegnati che soffrono
in silenzio, ormai soli e chiusi in se stessi. Con il suo sguardo
riusciamo a vedere anche quello che si finge talvolta di non sapere».
Il problema è proprio questo: si fingono di non vedere alcuni
problemi gravi, anche quando riguardano i bambini. Occorre reagire.
Che uomini e donne siamo diventati, se notizie così le dimentichiamo
con gli altri fatti minori di cronaca? L'appello che ognuno può
ricevere dalla propria sensibilità e lo stimolo delle parole del
cardinale Tettamanzi, spingono a compiere lo sforzo necessario
per "vedere" queste situazioni di miseria.
In gioco c'è la dignità umana: di tante persone e della nostra
stessa società. La convivenza, per potersi definire civile, non
può operare simili violenze sui piccoli: morire asfissiati perché
non ci si può permettere un impianto di riscaldamento decente,
costringere un bambino a lavorare per fronteggiare l'indigenza
della famiglia…
È necessario osservare la legalità, è un fondamento del patto
sociale. Ma la tutela della dignità umana - in special modo per
i bambini - non deve sottostare a nulla. Un bambino di genitori
extracomunitarie ha bisogno della scuola materna come il figlio
di un milanese. Anzi, ne ha maggior bisogno: date le condizioni
dei genitori (che di giorno si immagina siano impegnati a cercarsi
da vivere, senza l'aiuto di alcuna rete parentale o sociale) rischia
ancora di più in termini di emarginazione e di incolumità fisica.
La scuola è integrazione, la scuola è educazione, la scuola è
prevenzione al disagio.
Sempre nel discorso di S. Ambrogio, il cardinale Tettamanzi lodava
l'azione della Caritas, della Casa della Carità e del volontariato
«impegnati a sviluppare percorsi di integrazione avvicinando le
persone, cercando per loro un lavoro dignitoso e onesto, accompagnando
e inserendo i bambini nelle scuole. Ma questa disponibilità operativa
e tante volte faticosa ha bisogno di un maggior dialogo con le
istituzioni, chiede di sentire le istituzioni alleate, ancora
più presenti, autorevoli, capaci di far rispettare le leggi e
solidali nel combattere la miseria».
Il binomio legalità e solidarietà è inscindibile. Ma se in nome
della legalità dei bambini sono oggetto di discriminazione, emarginazione,
sono esposti al rischio della vita, qualcosa non funziona, qualcosa
è da cambiare.
La
festa del Natale, per quanto celebra e per il particolare significato
religioso, viene spesso indicata come la "festa dei bambini".
Un motivo in più per riflettere ed agire - da subito - di conseguenza.
da Incroci News, settimanale on line della Diocesi
di Milano, n. 48/2007
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Nella
Comunità parrocchiale:
hanno
ricevuto il Battesimo
VICTORIA
ZOE CALIMANI
MARIA CELESTE GIANNINI
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abbiamo
affidato ai cieli nuovi e alla terra nuova
MAURA
RONZONI (a. 75)
CARLO BOMBONATO (a. 70)
ANNA MAGRI (a. 86)
CAROLINA DELPIANO ved. GENOVA (a. 90)
DOMENICO CERBINO (a. 79)
OLIVIERO GARAVAGLIA (a. 85)
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