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Come
albero
notiziario
mensile parrocchiale
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CHIESA
DEL DIALOGO
Dopo
Chiesa dei crocicchi (vedi Come albero di novembre) e Chiesa delle
case e nelle case (vedi Come albero di dicembre) ora Chiesa del
dialogo. Continua la mia riflessione sull’immagine di chiesa che
sogno e che vorrei contribuire a realizzare nella nostra comunità.
Questo tema – Chiesa del dialogo – mi è stato suggerito dal bellissimo
Discorso che il cardinale Tettamanzi ha rivolto alla nostra città
in occasione dell’ultima festa di sant’Ambrogio. Ampi estratti
di questo discorso sono riportati in questo fascicolo. Inoltre
questo mese di gennaio si concluderà con la settimana di preghiera
per l’unità dei cristiani. La nostra chiesa ha la gioia di accogliere
proprio nella domenica 18 gennaio alla messa delle ore 11 la Pastora
della Chiesa metodista Eliana Briante che, per l’iniziativa diocesana
“Scambio di amboni”, terrà la predicazione commentando i testi
biblici della liturgia. È questa una forma significativa di dialogo
tra cristiani a partire dall’obbedienza alla parola di Dio. Questa
stessa domenica alcuni preti saranno accolti da comunità cristiane
protestanti per l’annuncio e il commento della Parola.
Ancora
il tema del dialogo mi è stato raccomandato dalla felice esperienza
della nostra Cattedra dei non credenti che si è svolta nei mesi
di novembre e dicembre. Un pubblico numeroso ha intensamente partecipato
alle quattro serate animando il dialogo con i diversi relatori
e con gli stessi partecipanti alla serata. Riprenderemo tra febbraio
e marzo questa davvero felice esperienza.
E
infine anche la visita alle famiglie che purtroppo non sono riuscito
a concludere prima di Natale e che continuerò a partire dalla
seconda metà di gennaio, è un significativo esercizio di dialogo.
Pur nell’esiguità del tempo a disposizione non sono mancate le
occasioni di dialogo, anche con qualche punta aspra… Così un signore,
che non ha accettato il libriccino che doniamo a tutti perché
scritto dal cardinale Tettamanzi: del nostro arcivescovo non condivide
infatti proprio le posizioni di apertura e dialogo. Questo stesso
signore non condivide nemmeno le posizioni espresse dal cardinale
Martini nel suo ultimo libro, anzi mi omaggia una pagina de «Il
Foglio» di Giuliano Ferrara pesantemente critico nei confronti
del libro di Martini. Sono grato a questa persona che con franchezza
mi ha manifestato le sue opinioni che certamente non condivido.
Così come sono grato a chi, al termine della messa, mi manifesta
dissenso o consenso nei confronti dell’omelia che ho pronunciato.
C’è chi, approvando le mie parole, mi raccomanda di pubblicarle
su questo nostro Notiziario e c’è invece chi esprime divergenza
di opinioni. Anche questi pur brevissimi scambi sono esercizi
di dialogo e qui vorrei invitare a manifestare le proprie opinioni
a voce o per scritto, magari utilizzando il mio indirizzo di posta
elettronica: giuseppegrampa@libero.it
Infine
il dialogo è già pratica abituale nella nostra comunità grazie
all’esperienza del Consiglio pastorale parrocchiale e del Consiglio
per gli affari economici. Si tratta di due regolari occasioni
di dialogo sui problemi e sulle scelte della nostra comunità:
in questi primi mesi nessuna decisione è stata presa senza il
consiglio dei due organismi. Anche la decisione di riprendere
la felice esperienza della cattedra dei non credenti è maturata
grazie ad un dialogo che nel corso di diverse serate ha visto
un confronto tanto franco quanto appassionato. Il tema, i relatori,
l’articolazione delle serate: tutto è stato frutto di dialogo.
Faccio un altro, piccolo, esempio: l’impianto per la diffusione
del suono delle campane, dopo anni di onorato servizio, era passato
a miglior vita… Personalmente preferivo il silenzio al suono artificiale
delle campane. Anche don Paolo e don Alberto condividevano questo
mio orientamento. Ho sottoposto il problema al Consiglio pastorale
e, con mia sorpresa, la scelta del silenzio è stata bocciata:
da Natale abbiamo un nuovo scampanìo, artificiale ma, riconosco,
abbastanza gradevole. Ma perché il dialogo è un tratto decisivo
del volto della Chiesa come Gesù l’ha voluta e la vuole?
Dialoga solo chi apprezza l’altro
Il
dialogo nasce anzitutto dalla consapevolezza che l’altro è portatore
di verità. Il primo movimento del dialogo è infatti costituito
dall’ascolto dell’altro e tale ascolto è possibile solo muovendo
dalla consapevolezza che l’altro può dischiudermi un più vasto
orizzonte di conoscenza e di verità.
Non
ci può essere dialogo se l’altro, il mio interlocutore, è semplicemente
liquidato perché assimilato all’errore. Fino a quando si è ripetuto:
«Fuori dalla chiesa non c’è salvezza alcuna» non vi è stato spazio
per il dialogo: se fuori non c’è che il deserto è inutile guardare
fuori e ascoltare l’altro. Grazie al Concilio Vaticano II noi
guardiamo alle altre Chiese e comunità separate come portatrici
di valori, come veri e propri cammini di santificazione: «Le Chiese
e le comunità separate, quantunque crediamo abbiano delle carenze,
nel mistero della salvezza non sono affatto spoglie di significato
e di peso. Poiché lo Spirito di Cristo non ricusa di servirsi
di esse come di strumenti di salvezza» (Decreto conciliare sull’Ecumenismo,
n. 3). Quanto si dice per le Chiese cristiane con le quali esistono
legami fortissimi (battesimo, eucaristia, molti secoli di cammino
comune) vale, in forme e misure diverse, anche per le altre religioni:
«La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in
queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi
di agire e di vivere quei precetti e quelle dottrine che, quantunque
in molti punti differiscano da quanto essa crede e propone, tuttavia
non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina
tutti gli uomini» (Dichiarazione sulle religioni non cristiane,
n. 2). Notiamo in questo testo la suggestiva immagine astronomica:
unica è la fonte della verità e della luce, ogni cammino religioso
riflette un raggio di quell’unica sorgente di luce che è più grande
di qualsiasi esperienza religiosa.
Dialoga solo chi riconosce i propri limiti
Il
secondo movimento del dialogo è costituito della consapevolezza
di non essere già nella pienezza della verità. L’ascolto dell’altro
nasce a un tempo dall’apprezzamento, cordiale, dell’altro e dal
riconoscimento, umile, del proprio limite, della parzialità del
proprio punto di vista. Chi non riconosce i propri limiti non
potrà mai dialogare.
Una
consapevolezza questa che ha trovato la sua più alta espressione
in un gesto voluto da Giovanni Paolo II nell’anno del Grande Giubileo.
Domenica 12 marzo 2000, prima domenica di Quaresima, nella Basilica
di san Pietro a Roma il Santo Padre, nel corso di una celebrazione
penitenziale, ha riconosciuto le colpe storiche dei figli della
Chiesa e ha chiesto perdono. «Alla fine di questo millennio –
ha detto il Papa – si deve fare un esame di coscienza: dove stiamo,
dove Cristo ci ha portati, dove noi abbiamo deviato dal vangelo».
E nella Bolla di indizione del Giubileo: «Co-me successore di
Pietro chiedo che in questo anno di misericordia, la Chiesa si
inginocchi davanti a Dio ed implori il perdono per i peccati passati
e presenti dei suoi figli» (n. 11). Si contano quasi cento testi
nei quali il Papa ha riconosciuto colpe nella storia della Chiesa
e almeno venticinque volte ha detto: «Io chiedo perdono». Già
Paolo VI il 29 settembre 1963, tre mesi dopo la sua elezione al
sommo pontificato, dichiarava, rivolgendosi alle chiese cristiane
separate dalla chiesa cattolica: «Se alcuna colpa fosse a noi
imputabile per tale separazione, noi ne chiediamo a Dio umilmente
perdono e domandiamo venia altresì ai fratelli che si sentissero
da noi offesi…». E quando era arcivescovo a Milano, il 10 novembre
1957, aprendo la Missione cittadina Montini così si rivolgeva
ai “figli lontani”: «Se una voce si potesse far pervenire a voi,
figli lontani, la prima sarebbe quella di chiedervi amichevolmente
perdono. Sì, noi a voi, prima che noi a Dio… Se non vi abbiamo
compreso, e vi abbiamo troppo facilmente respinti, se non ci siamo
curati di voi, se non siamo stati bravi maestri di spirito e medici
delle anime, se non siamo stati capaci di parlarvi di Dio come
si doveva, se vi abbiamo trattato con l’ironia, con il dileggio,
con la polemica, oggi vi chiediamo perdono».
Il
gesto penitenziale di Giovanni Paolo II è in profonda continuità
con l’immagine di Chiesa che il Concilio Vaticano II ha proposto:
Chiesa “peregrinante”, Chiesa che «già sulla terra è adornata
di vera santità anche se imperfetta» (Lumen Gentium 48). Per questo
«la Chiesa che comprende nel suo seno i peccatori, santa insieme
e sempre bisognosa di purificazione, mai tralascia la penitenza
e il suo rinnovamento» (LG 8).
Una
Chiesa che ha fatto del dialogo la sua scelta irreversibile può
essere in una società sempre più pronta allo scontro un segno
di speranza.
Quanto
fin qui ho detto pensando alla Chiesa vale ugualmente per la famiglia,
per l’ambiente di lavoro, per ogni altra aggregazione umana, vale
per i rapporti interpersonali e per quelli internazionali.
La
guerra che semina morte tra Palestinesi e Israeliani in quella
che è sempre più difficile chiamare Terrasanta è un’ulteriore
conferma: il dialogo è l’unica alternativa alla violenza. Quando
ci si siede al tavolo del dialogo, della trattativa, le armi tacciono
e restano fuori dalla porta. Quando non si è più capaci di dialogo
la parola passa alle armi.
Ecco
perché sogno una chiesa che sia spazio di dialogo e più modestamente
una parrocchia che sia luogo di incontro, di ascolto reciproco,
di scambio fraterno, in una parola: luogo di dialogo.
don
Giuseppe
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«…
e il Verbo divenne carne»
omelia
di don Giuseppe nella Notte di Natale
giovedì 25 dicembre 2008 (Is 2, 1-5; Gal 4, 4-6; Gv 1, 1-5,9-14)
Rimandiamo
la lettura dell'omelia su questo sito alla voce "omelie"
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LA
CITTÀ RINNOVATA DAL DIALOGO
in
questo articolo vengono riportati alcuni stralci del discorso
alla Città durante i Primi Vespri della solennità
si Sant'Ambrogio il 5 dicembre 2008 dal Cardinale Dionigi Tettamanzi.
Rimandiamo
la lettura dell'intero discorso sui documenti ufficiali.
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ELOGIO
DEL DIALOGO
di Gad Lerner
Note
a margine del Discorso dell'Arcivescovo alla città di Milano
Il
discorso alla città che il cardinale Tettamanzi ha rivolto a Milano
per la festa di sant’Ambrogio, lo scorso dicembre, e che è ripreso
in parte nelle pagine precedenti, ha richiamato in me la memoria
della cattedra dei non credenti voluta dal cardinale Martini:
un evento che mi aveva coinvolto per la capacità di rendere protagonisti
di questo dialogo persone che facevano parte del tessuto di questa
città e che, chissà perché, venivano considerati lontani appunto
dalla vita della chiesa di Milano. In particolare ricordo come
mi emozionò la partecipazione a quel dialogo di un caro amico,
mio coetaneo, Stefano Levi Della Torre. Anche la Cattedra dei
non credenti fu una esperienza di dialogo: saper cercare interlocutori
che sono dentro al tessuto vivo della nostra città facendola sentire
davvero una comunità. Questo era inaspettato allora e la ripresa
da parte del cardinale Tettamanzi di questo metodo mi ha dato
profonda gioia: questo sentirsi comunità anche nella nostra esperienza
multiculturale e multireligiosa non è affatto scontato. Anzi è
un segno che può rafforzare il nostro stare insieme.
Ricordo che in quelle serate si viveva un’accezione del termine
dialogo che era nuova. Diceva il cardinal Martini che «non esiste
dialogo che non metta in gioco noi stessi». Altrimenti dovremmo
parlare di buon vicinato, di diplomazia, di capacità di autolimitarsi
per favorire la convivenza. Quando invece il dialogo coinvolge
esperienze di vita che convivono dentro allo stesso territorio
e alla stessa comunità non si può più restare limitati al pur
saggio tradizionale principio diplomatico della non interferenza
reciproca. Noi invece interferiamo dentro la vicenda anche religiosa
di chi è partecipe della nostra medesima comunità e lo possiamo
davvero realizzare questo obiettivo soltanto avendo la serena
consapevolezza che questo dialogo ci trasformerà, che non ne usciremo
uguali a prima.
Oggi
di dialogo si parla soprattutto nei confronti dell’Islam. Nonostante
le difficoltà noi dobbiamo dialogare con l’Islam sapendo che esso
vive un momento difficilissimo dovuto all’egemonia che al suo
interno oggi hanno conseguito posizioni variamente definibili
come tradizionaliste e nostalgiche di richiamo a una mitica età
dell’oro. Nell’Islam ci sono differenze ed è importante sempre
non cadere nella trappola del fare dell’Islam un tutt’uno; è però
indubbio che queste posizioni tradizionaliste oggi hanno un denominatore
comune, che è quello di una restrizione letteralista della lettura
del Corano che ne propone un apprendimento meramente mnemonico
diffidando di qualsiasi esegesi e interpretazione che voglia in
qualche modo riportare le sue prescrizioni a una realtà storica
che si è evoluta: tipico è il caso del ruolo assegnato alla donna
e dei divieti che la affliggono. Noi dobbiamo cercare al suo interno
gli interlocutori capaci di tenere insieme spirito religioso e
spirito critico e capacità di aggiornamento della dottrina.
Credo
sia importante il fatto che il dialogo si volga alle domande di
fondo in seguito alle quali si sprigiona dentro a questo nostro
mondo contemporaneo il senso religioso. Noi lo vediamo manifestarsi
con una energia straordinaria nel popolo dell’Islam; talvolta
lo viviamo con turbamento e come una minaccia, forse perché sentiamo
quanto a noi manchi questa religiosità semplice, questa propensione
alla fede. Così la osserviamo con invidia ma anche con timore,
quasi che questa naturale propensione alla fede automaticamente
equivalga al fanatismo. Io credo, invece, che c’è lì il mistero
della fede, il mistero del rapporto con il trascendente, il mistero
della certezza di una vita ultraterrena che in qualche modo ci
sfida a un confronto sulle verità ultime. Negli ultimi mesi abbiamo
seguito con interesse e apprensione la mobilitazione dei monaci
buddisti a difesa dell’indipendenza del loro Paese, il Tibet.
Abbiamo
così scoperto la forza di resistenza che questa grande tradizione
religiosa custodisce. Prezioso è, da questo punto di vista, il
confronto con il buddismo, perché le religioni orientali ci portano
ad esaminare un malessere che è proprio della nostra società secolarizzata
e occidentale: il tabù della morte e la paura a confrontarci con
le domande vere sull’aldilà, su questo passaggio che le filosofie
orientali risolvono serenamente in un tutto, dentro al quale serenamente
annullarci. Ho seguito con grande interesse la vicenda culturale
e anche editoriale di Tiziano Terzani e lo straordinario successo
dei suoi ultimi libri Un altro giro di giostra e La
fine è il mio inizio, in cui un uomo occidentale, a partire
dall’esperienza della propria malattia e del proprio corpo in
disfacimento, ha preparato la cura di sé, ma uscendo da una dimensione
tecnica della medicina occidentale gestita dagli ‘aggiustatori’
pur necessari – come lui definiva i medici e gli oncologi che
curavano il suo tumore con gli strumenti della chirurgia, della
chemioterapia, della radioterapia – per arrivare a un’idea diversa
di cura, che ci porti anche ad accettare il disfacimento inevitabile
del nostro corpo e a meditare sul percorso della nostra vita,
del nostro tragitto terreno, con la serenità di chi – attraverso
questo tesoro che è l’esperienza che abbiamo vissuto – ne prepara
anche il termine e quindi un commiato, che sia in qualche modo
accettato in tutto il suo mistero. Qui siamo ben al di là delle
volgarizzazioni alla new-age o del tipo della religione fai-da-te
costruita su misura per tuo comodo; siamo invece di fronte al
grande tabù del nostro tempo, che è la nostra incapacità di misurarci
con il dolore, di sviluppare relazioni personali con le persone
malate, e infine con il mistero della morte, che semplicemente
cancelliamo illudendoci che non parlarne e non pensarci ce ne
preservi.
Sono
profondamente convinto, l’ho detto in occasione dell’ultimo incontro
della Cattedra dei non credenti che la nostra parrocchia di san
Giovanni in Laterano ha organizzato lo scorso dicembre, che tante
nostre paure dipendono proprio da questa nostra incapacità di
serio, autentico dialogo proprio su questi interrogativi ultimi
e radicali.
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PASSAGGI
In
questo inizio d’anno ci sembra bello condividere con tutti i lettori
questa riflessione sul “passaggio”, perché possa dare a tutti
la forza di combattere come Giacobbe. Il testo è la traduzione
dell’originale retoromancio pubblicato col titolo “Passadis” sul
giornale “La Quotidiana”, mercoledì 31 dicembre 2008, pagina 2.
Molti
sono, nella vita, i passaggi: un compleanno, il passaggio da un
decennio all’altro, l’inizio di una professione, un cambiamento
di professione, l’entrata in pensione, e alla fine il passaggio
definitivo, ossia l’uscita da questa vita. In questi giorni sta
al centro dell’attenzione il passaggio da un anno all’altro, accompagnato
da un fiume di auguri scambievoli. Ogni passaggio reca però con
sé un punto di domanda. Ci si chiede in quale situazione ci si
trova e quale sviluppo essa prenderà. Ogni passaggio porta forse
con sé una “crisi”, un pericolo, ma anche una chance.
Per tutti questi passaggi si dà una sorta di archetipo, un simbolo
universale. È il passaggio del patriarca Giacobbe sul fiume Jabok,
raccontato nella Bibbia (Genesi, cap. 32). La vicenda si può riassumere
così. Giacobbe sta fuggendo: prima, da suo fratello Esaù, che
aveva raggirato. Quindi da suo zio Labano, presso il quale si
era rifugiato fuggendo dal fratello. Aveva poi truffato anche
suo zio.
Stava
in definitiva fuggendo da se stesso? Questa è una domanda “moderna”,
psicologica, sconosciuta alla Bibbia, ma che è lecito porre.Giacobbe
dovrebbe allora, una buona volta, confrontarsi con se medesimo?
Giacobbe
dunque fugge da Labano, suo zio, per tornare nella sua patria,
con donne, bambini e famigli, con cammelli, bestiame minuto e
con tutte le sue cose. Ma in patria c’era uno che Giacobbe aveva
solennemente imbrogliato: Esaù, suo fratello, al quale aveva rubato
la primogenitura per un piatto di lenticchie. Alle sue spalle,
quindi, stava un uomo che aveva ingannato e davanti a lui un altro,
che aveva egualmente ingannato: il suo passato e il suo avvenire
sono presi nella tenaglia dei tanti imbrogli che costellano la
storia dei patriarchi.
Giacobbe
arriva allo Jabok, il fiume che segna il confine. Sull’altra riva
lo aspetta Esaù, chissà con quali intenzioni. Giacobbe manda avanti
i suoi domestici con grandi doni per il fratello. Fa quindi attraversare
il fiume alla sua gente, in una successione frutto di un calcolo
sottilmente scaltro: prima le donne collaterali (che contano di
meno) coi figli; poi Lea, la figlia di Labano che Giacobbe di
per sé non avrebbe voluto sposare, ma che aveva trovato nel suo
letto al mattino dopo la prima notte di nozze. Ebbro com’era,
non si era accorto che Labano lo aveva fatto andare a letto con
la figlia meno bella, così che questa si sistemasse per prima.
Dopo Lea e i suoi figli, dunque, il fiume viene fatto attraversare
a Rachele, la figlia più bella e più giovane di Labano, che Giacobbe
amava. Per ottenerla in moglie aveva dovuto lavorare altri sette
anni per lo zio.
Sulla riva del fiume, Giacobbe è rimasto indietro da solo. Era
notte. Il testo recita così:
«Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare
dell’aurora. Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all’articolazione
del femore e l’articolazione del femore di Giacobbe si slogò,
mentre continuava a lottare con lui. Quegli disse: “lasciami andare
, perché è spuntata l’aurora”».
Un
fatto misterioso, un uomo senza nome. Il che stimola a tanto più
numerose considerazioni, a interi strati di interpretazioni, ognuna
con le sue buone ragioni. La cosa più semplice è cominciare dall’origine.
Che cosa vuol esprimere questo racconto? «… una saga di luogo,
l’esperienza di un viandante, che viene attaccato nel corso del
suo cammino…», scrive Claus Westermann nel suo grande commento
alla Genesi. Un fiume che deve essere guadato è per ladri e rapinatori
un luogo ideale per sorprendere nottetempo un viandante, nel momento
in cui può meno difendersi. Il motivo del ladro traluce anche
nel testo: sta albeggiando, e la luce non è l’elemento preferito
dai ladri. Per questo, la supplica dell’uomo misterioso. Alla
leggenda si aggiungono i ricami di credenze animistiche: piante,
animali, fiumi sono animati da divinità, da demoni benigni o maligni.
L’“uo-mo” che lotta con Giacobbe sarebbe il demone del fiume che
dà addosso al viandante. Tuttavia un demone perde la propria forza
all’avvicinarsi dell’aurora. La Bibbia accoglie tutti questi motivi
leggendari e vi aggiunge del suo.
Il testo prosegue così:
«Giacobbe rispose: “Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!”.
Gli domandò: “Come ti chiami?”. Rispose: “Giacobbe”. Riprese:
“Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto
con Dio e con gli uomini e hai vinto!”. Giacobbe allora gli chiese:
“Dimmi il tuo nome”. Gli rispose: “Perché mi chiedi il nome?”.
E qui lo benedisse».
Il racconto prende qui un’evidente svolta. Il demone dell’animismo
acquista il volto del Dio dei patriarchi. Questi non dice il suo
nome, così come più tardi non lo dirà neppure a Mosè. Da questo
testo enigmatico promana un certo fascino. Un uomo, dice il testo;
un rapinatore, dice un antico ricordo; il demone di un passaggio
pericoloso attraverso un fiume, dice la credenza animistica; Dio,
dice la tradizione ebraica e cristiana. Ciò che depone in favore
dell’interpretazione “Dio”, nella tradizione ebraica e cristiana,
è non solo il fatto che l’uomo misterioso rifiuti di dire il suo
nome, ma, oltre a questo, è la benedizione che Giacobbe chiede
al suo avversario, prima di lasciarlo andare: «Non ti lascerò,
se non mi avrai benedetto!».
Tralasciamo
qui di addentraci in una spiegazione minuta di altri dettagli
interessanti. Nella tradizione e nell’arte questa storia viene
tramandata col titolo “La lotta con l’angelo”: un motivo rappresentato
da molti pittori, tra i quali anche il noto artista sursilvano
Alois Carigiet.
Giacobbe
deve confrontarsi col suo passato andando incontro al suo avvenire.
Una situazione che di per sé caratterizza ogni passaggio. “Esaù”
diviene allora un simbolo: il simbolo tanto di un avvenire incerto
quanto di un passato sul quale non si è fatta chiarezza. Per Giacobbe,
Esaù è una parte della sua vita. Di più: “Esaù” è una parte di
se stesso e, in quanto figura simbolica, una parte di ognuno di
noi.
Come
potremmo chiamare questa parte misteriosa di noi stessi? La nostra
ombra? La nostra storia non sempre trasparente? L’altra faccia
di noi stessi, quella che nascondiamo? Il nostro doppio? Quello
di cui non siamo venuti a capo in passato e quello che temiamo
per l’avvenire? Senza far fronte a tale realtà, dalla quale siamo
sempre in fuga, nessun passaggio della nostra vita può aver buon
esito. Da una parte, tale realtà è l’oscurità della notte, l’acqua
del fiume, l’uomo misterioso che è in agguato. E questa parte
fa paura. D’altra parte, tutto questo ‘negativo’ non è una realtà
fissa e granitica. La nostra parte d’ombra non è solo un nemico.
È qualcosa di noi che possiamo superare, integrandola. Ciò che
è una “parte di noi” estranea, minacciosa, sconosciuta e quindi
senza nome, acquista l’aspetto di una figura umana, che, nel corso
della lotta, ci prega di “lasciarla libera”. Tale cambiamento
di scena e di tono – si sta facendo giorno – rivela il nostro
proprio cambiamento: noi diventiamo altri, recuperando noi stessi.
L’uomo minaccioso che è al nostro interno, viene accettato, diventa
noi, diventa una benedizione. Il “passaggio del fiume” si è compiuto.
Simbolo di ciò è il “nome nuovo” (da “Giacobbe” a “Israele”),
una nuova identità, ottenuti avendo accettato e acquisito il passato
nell’andare incontro all’avvenire. «Vedete, questa notte Israele
ha vinto se stesso» scrive, con intuizione da grande poeta, Thomas
Mann, nell’ultimo romanzo della tetralogia Giuseppe e i suoi
fratelli.
Se
il passaggio in un nuovo anno potesse per noi realizzarsi in questo
modo, allora potrebbe davvero avere buon esito. L’ “uomo” che
dobbiamo vincere siamo in definitiva sempre soltanto noi stessi.
Ursicin
G.G. Derungs
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Nella
Comunità parrocchiale:
hanno
ricevuto il Battesimo
LEONIDA
ALBANO
EMILIO ARLOTTA
ALESSANDRO CACCIAGUERRA
GIULIA IMPERIOSO
GAIA MECELLA
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abbiamo
affidato ai cieli nuovi e alla terra nuova
NADIA
MARANGONI in ROSSI (a. 56)
MARIA BUSSOLATI (a. 101)
ADRIANA VITALI ved. BIGNAMI (a. 87)
GIOVANNI TAVA (a. 87)
FRANCESCO MOGLIA (a. 81)
ANDREA GIUSEPPE ANTONIO SCARONI (a. 77)
CESARINA GALBUSERA (a. 79)
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