MARIA
CRISTINA BARTOLOMEI
MARIA DONNA DELLA “VISITAZIONE”
Tutti i quattro Vangeli menzionano Maria, anche se in misura e
modi tra loro molto diversi. In Marco, il più antico, è menzionata
solo nell’episodio in cui la madre e i fratelli di Gesù lo cercano
(Mc 3, 31), oltre che, indirettamente, appellando Gesù “il figlio
di Maria”. La riflessione poi cresce: in Luca è molto presente
nei Vangelo dell’infanzia, e in Giovanni la troviamo all’inizio
della vita pubblica, sotto la Croce oltre che, in filigrana, nella
donna dell’Apocalisse. Ma in tutti i casi i racconti non sono
informazioni su Maria fine a se stesse, bensì annuncio su Gesù.
Maria, dunque, come Evangelo e per l’Evangelo. E come simbolo:
non per sminuire la sua realtà, bensì per comprenderla pienamente
come annuncio e tramite di annuncio. È bello che la tradizione
ci consegni come momento di particolare meditazione su Maria il
mese di maggio, che rientra sempre, almeno in parte, nel periodo
Pasquale il cui compimento è la Pentecoste. A questa pienezza
del mistero è dunque collegata Maria. La Visitazione (Lc 1, 39-45.56)
può apparire un intervallo umile tra i due momenti “grandi”: l’Annunciazione
e il Magnificat. Ma non è solo una cornice narrativa. Ci dice
cose molto importanti: altrimenti perché Luca le avrebbe dato
tanto spazio? A ben guardare nella dinamica della Visitazione
è già contenuto il Magnificat, che potremmo considerare il commento,
l’esplicitazione della Visitazione. La dimensione umile e quotidiana
dell’episodio, del resto, è una componente importante del suo
messaggio, come sottolinea il Dottore della Chiesa, s. Teresa
di Lisieux: Quanto avrei desiderato essere sacerdote per predicare
sulla Santa Vergine! Mi sarebbe bastata una sola volta per dire
tutto ciò che penso a questo proposito. Avrei prima fatto capire
quanto poco si conosca, in realtà, la sua vita. Non bisognerebbe
dire cose inverosimili che non si sanno (che piccolissima andò
al Tempio a offrirsi con sentimenti ardenti; quando forse lo fece
per obbedire ai genitori; e perché dire che dopo le parole di
Simeone [sulla spada] ebbe sempre davanti agli occhi la Passione
di Gesù?). Perché una predica sulla Santa Vergine mi piaccia e
mi faccia del bene, bisogna che veda la sua vita reale, non supposizioni
sulla sua vita; e sono sicura che la sua vita reale doveva essere
semplicissima. La presentano inavvicinabile, bisognerebbe mostrarla
imitabile, fare risaltare le sue virtù. Dire che viveva di fede
come noi, darne le prove col Vangelo che leggiamo “Non capirono
ciò che diceva loro” (Lc 2, 50) . […] È bene parlare delle sue
prerogative, ma […] se in una predica si è obbligati dall’inizio
alla fine a esclamare Ah! Ah!, se ne ha abbastanza. Chi sa se
qualche anima non arriverebbe persino a sentire una certa freddezza
per una creatura tanto superiore.
Come per ogni passo del Vangelo, molte sono le possibili chiavi
di lettura, tra loro connesse e intrecciate: teologica, cristologica,
ecclesiale, spirituale, antropologica; vale a dire: che cosa ci
dice, rispettivamente, di Dio, del mistero di Cristo, della Chiesa,
della vita dello Spirito in noi, della nostra umanità. In quest’ultima
lettura emerge anche la specificità del femminile. Gli altri significati
riguardano tutti, ma ciò accade non senza l’apporto del femminile
nell’umano. Cerchiamo ora di cogliere brevemente e sinteticamente
il senso del testo. Il testo narra un viaggio (circa 80 km: considerevole,
visti i mezzi d’allora e l’impossibilità di concluderlo in giornata).
Ci conferma così l’aspetto di grande maturità, indipendenza e
autonomia di questa giovane donna, già emerso nella Annunciazione.
E, insieme, ci presenta una ‘messa in moto’ da parte della Parola
di Dio e dello Spirito. È il classico motivo biblico della partenza:
da Abramo che esce dalla sua terra a Gesù spinto nel deserto.
Qui è per andare verso l’altra; non per una missione, bensì piuttosto
per la quotidianità. Sottolinea don Abramo Levi: Se si sottoponesse
al conoscitore medio del vangelo la domanda: viene prima la frase
di Pietro “io vado a pescare”, o la frase “noi che abbiamo rinunciato
a tutto”, la risposta sarebbe immancabilmente: viene prima la
frase “io vado a pescare” [Gv 21, 2-3], poi “noi che abbiamo rinunciato
a tutto”. Di fatto, invece, è il contrario. Col dire “io vado
a pescare” Pietro dimentica la sua precedente affermazione: “noi
che abbiamo rinunciato a tutto”. E fa bene a dimenticarla. Infatti
(anche a prescindere dalla risposta di Gesù) non gli fa molto
onore. Come si può dire “noi che abbiamo rinunciato a tutto”,
quando si aggiunge “che cosa avremo in cambio”? Il Pietro che
incontra Gesù definitivamente non è il Pietro che ha rinunciato
a tutto, ma è il Pietro che va a pescare. Non l’uomo del privilegio,
ma l’uomo della vita comune. Andando semplicemente a pescare Pietro
si tira dietro gli altri compagni “Veniamo anche noi con te”.
Andando a pescare pesci, Pietro diventa pescatore di uomini.
La
bellezza dell’incontro tra le due donne è intensamente resa da
una bellissima poesia di Rilke:
E le donne si traballarono incontro
e si toccarono vesti e chiome.
Ognuna, colmata dal suo sacrario,
trovava riparo nella compagna.
Due donne che si riconoscono: due donne non destinate ad avere
figli (l’una perché solo fidanzata, l’altra perché anziana): come
sempre nella Bibbia, sono le sterili, o i non primogeniti a ricevere
la benedizione. Per dire che ciò che nell’uomo si genera di salvezza,
di vita eterna non viene da noi, ma è dono gratuito di Dio. Nell’episodio
troviamo rappresentata la giusta soluzione della grande questione
del rapporto tra il movimento del Battista e quello di Gesù: Gesù
è il più grande, ma riconosce la preziosità evangelica del Battista:
il più piccolo nel Regno dei Cieli, ma il più grande tra nati
di donna. E ciò disegna, ben di più, il rapporto tra Chiesa e
Israele: non una alternativa, una sostituzione, un soppiantare
e subentrare, ma la continuità, illuminata dalla novità. È un
reciproco riconoscimento (parliamo oggi di Primo e non di ‘Vecchio’
Testamento). La novità svela a sé stessa l’antichità senza smentirla:
Giovanni salta di gioia. Maria è ponte tra i due Testamenti. Potremmo
leggere la pericope come una parabola: «Il Regno dei cieli è simile
a due donne…». Vediamone per brevi punti alcuni dei molteplici
significati. Ci dice di una doppia povertà colmata: due ‘povere’
che esultano per una grande ricchezza, nascosta (come il tesoro
nel campo) nel profondo del loro essere: il Regno di Dio è «tra
noi e dentro di noi». Il racconto dice anche che ognuno di noi
porta un “dono” unico di Dio che gli è affidato per metterlo in
circolazione nel. E questo dono ‘passa’ nella relazione di riconoscimento
(accoglienza, rispetto delle differenze, solidarietà) dell’altro.
Si riconosce e si è riconosciuti (come accadde a Zaccheo) e questo
è buon annuncio. È salvezza. È Grazia.
All’attuale
umanità stanca e vecchia, come Elisabetta, si annuncia che è già
presente un sempre nuovo inizio, nascosto di Dio. C’è una voce
che odono anche i non nati e i morti e che li anima: speranza
per noi che siamo tutti non del tutto nati e accompagnati da tanti
aspetti di morte. Viene attirato il nostro sguardo sulla dimensione
della contemplazione nella ‘cella del cuore’ - che è di tutti
- di una vita che ci inabita, che è interiore, come formula S.
Agostino: «Dio più intimo a me di me stesso, e superiore al sommo
di me». Thomas Merton vede in Giovanni Battista il modello dell’eremita
contemplativo; Etty Hillesum invitava i perseguitati dal nazismo
a salvare il Dio che portavano in loro, invece di preoccuparsi
dell’argenteria. In questo insieme emerge anche la grazia specifica
del femminile: trasformare lo straniero, il ‘clandestino a bordo’
nel più intimo, l’inquietante (unheimlich) nel più familiare (heimisch).
Il femminile è l’umanità che ‘sa’ di avere in sé, fin nel corpo,
spazio per l’altro. Che sa di poter vivere una relazione unica
con un altro: del tutto altro e del tutto intimo (ma poi deve
separarsene: questo è il possibile inciampo del femminile, e per
questo c’è l’aiuto ‘di fronte’ - l’ ’ezer ke-negdo (Gen 2, 18)-
del maschile).
Pasqua ci parla nel segno della tomba vuota: vuote sono le tombe,
vuoti sono i templi di pietra, se concepiti come tombe, prigioni
di Dio. La Visitazione ci dice che, invece, colmo è il tempio
vivente, pieno di Grazia e Presenza è il grembo dell’umanità,
della storia umana. La Maria dell’ Annunciazione è l’immagine
della Chiesa secondo la Costituzione Conciliare Dei Verbum: «In
religioso ascolto della Parola di Dio e proclamandola con ferma
fiducia». La Maria della Visitazione è piuttosto e ci sostiene
nell’essere la Chiesa della Gaudium et spes: Le gioie e le
speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri
soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie
e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo,
e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro
cuore. La loro comunità, infatti, è composta di uomini i quali,
riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo nel
loro pellegrinaggio verso il regno del Padre, ed hanno ricevuto
un messaggio di salvezza da proporre a tutti. Perciò la comunità
dei cristiani si sente realmente e intimamente solidale con il
genere umano e con la sua storia.
ANTONIETTA CARGNEL
MARIA CUSTODE DELLA PAROLA
La
riflessione di questa sera parte dal Vangelo di Luca 2,19: «Maria,
da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo
cuore». Luca ci ha appena raccontato la nascita di Gesù. Vediamo
un bambino che nasce nella povertà, insieme ascoltiamo l’annuncio
della salvezza fatto ai pastori e assistiamo allo stupore di tutti
coloro che hanno accolto il messaggio dato loro dagli Angeli:
Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di
tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un
Salvatore, che è Cristo Signore (Lc 2,19). È nato il salvatore,
nella città di Davide; si tratta, dunque, di una salvezza messianica,
non di una salvezza qualunque, cioè di una salvezza definitiva.
Per un ebreo tutto ciò aveva una risonanza profonda: la promessa
attesa da lunghi anni, ora si è realizzata. L'eirène (la pace)
dice Shürmann (“Il Vangelo di Luca”, pag. 233, Paideia, 1983)
che ora si compie sulla terra dev'essere più di una eliminazione
di guerre e lotte: è la salvezza piena della fine dei tempi (cfr.
Lc 1,79), perdono dei peccati (1,77) e luce (1,78), nel senso
di Is 52,7; Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che
annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia
la salvezza, che dice a Sion: «Regna il tuo Dio». Questo bimbo
che ora è nato, dunque, è il principe della pace (Is 9,5) di cui
aveva parlato Isaia. Tuttavia, questa promessa è realizzata in
un contesto che appare contraddittorio perché questo bambino non
è in una reggia, ma nella povertà di una mangiatoia e nello stesso
tempo di lui si dice che è il salvatore degli uomini, da lungo
atteso dal popolo di Israele.
Di
fronte a tutto ciò – prosegue Luca – Maria, invece, custodiva
tutte queste cose, meditandole nel suo cuore. Tutti questi avvenimenti
– sono ancora parole di Shürmann – fanno pensare al futuro, da
cui viene atteso il compimento di quanto è stato raccontato. Sia
la meraviglia dei pastori e degli astanti, sia questo serbare
meditativo sono come una domanda aperta: Che cosa sarà mai di
questo bambino? (cfr. 1, 66) (Shürmann, pag. 238)? Maria, dunque,
custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore. C'è lo
stupore che si esprime nella lode e nel canto – dice Maggioni
(“Il racconto di Luca”, pag. 61-62, Ed. Cittadella, 2000) –, e
c'è lo stupore che si esprime nel silenzio e nell'ascolto. Anche
Maria ha bisogno di sentire le parole («tutte queste parole»)
che spiegano l'evento che ella stessa vede e vive. Parole che
ella custodisce nel suo cuore, cioè dentro di sé, nell'intimo.
Le parole sentite si fanno ascolto consapevole, interiore e pensoso,
intelligente: il «cuore» è tutto questo. Il verbo custodire -
è il solo verbo all'indicativo e che, perciò, regge tutta la frase
– non dice semplicemente il ricordare, ma sottolinea la cura e
l'attenzione, come quando si ha fra le mani una cosa preziosa.
Custodire (suntereo) dice la cura con cui Maria conserva dentro
di sé tutte le parole sentite, senza nulla perdere e senza nulla
cambiare: una cura prolungata, non di un momento, come suggerisce
il fatto che il verbo è al tempo perfetto. II testo aggiunge poi:
meditandole. Nel testo greco vi è un participio passato: sunballusa.
Il verbo sunballo vuol dire: paragonare, confrontare, mettere
insieme. È la stessa radice di simbolo, cioè, segno di riconoscimento;
un oggetto spezzato in due che, ricomposto nell'unità, indicava
il riconoscimento dell'altro. Si può ricordare a questo proposito
l'episodio di Tobia, quando il padre lo invia a recuperare il
danaro che egli ha lasciato presso Gabaèl. Tobia si pone il problema
di come poter riprendere la somma, dal momento che lui e Gabaèl
non si conoscono. Che segno posso dargli, – egli dice – perché
mi riconosca, mi creda e mi consegni il denaro? Rispose Tobi a
suo figlio Tobia: «Mi ha dato un documento autografo e anch'io
gli ho apposto il mio autografo: lo divisi in due parti e ne prendemmo
ciascuno una parte; la sua parte la lasciai presso di lui con
il denaro» (Tobia 5,3). La custodia di cui parla il Vangelo di
Luca, dunque, non è una custodia così pacifica, ma ha dentro tutta
la fatica di comprendere e di mettere insieme situazioni così
contrastanti: la povertà della situazione attuale e la gloria
cui questo bambino è chiamato. È una custodia che chiede il discernimento
delle situazioni in cui la vita di ogni giorno ci pone, situazioni
a volte contraddittorie e difficilmente spiegabili e che la Parola
di Dio illumina.
Una
custodia, dunque, che cerca di comprendere, come dice Maggioni
(pag. 62), la logica profonda, la direzione e la verità di cose
che possono sembrare slegate o in contrasto fra loro. Ed è appunto
ciò che deve fare Maria sentendo, da una parte, parole che proclamano
la gloria del bambino (parole da lei stessa sentite dall'angelo
dell'annunciazione) e, dall’altra, vedendo «un bambino avvolto
in fasce e deposto nella mangiatoia». E la tensione fra grandezza
e piccolezza, gloria e povertà che costituisce, come già notato,
l'ossatura portante della narrazione di Luca e, più profondamente,
dell'evento cristiano. Con poche parole (una semplice frase!)
Luca è così riuscito a presentare la Madre come la figura esemplare
del discepolo (e della chiesa) in ascolto e in cammino: non un
discepolo che anzitutto parla, ma ascolta; non un discepolo che
già sa, ma che deve camminare nella comprensione, illuminando
con la parola ascoltata (che viene da Dio, ma attraverso altri)
ciò che vede e vive. Una custodia che Maria ha compiuto in tutta
la sua esistenza. I Vangeli non ci dicono molte cose di lei, ma
ci presentano alcune tappe della sua vita in cui l‘ascolto della
Parola e la sua relativa custodia ha raggiunto momenti di grande
intensità. Innanzitutto, l'annuncio fattole dall’Angelo: kaire
= gioisci, kekaritomene = amata gratuitamente e, siccome il verbo
al perfetto dice un'azione stabile, possiamo aggiungere: stabilmente
da Dio. È un invito alla gioia. Ogni donna, ogni uomo, è amato
appassionatamente da Dio. È lui che prende l'iniziativa, che va
alla ricerca di chi percorre strade differenti, lontane da lui.
Il Vangelo ci racconta numerosi episodi al riguardo: il pastore
che cerca la pecora che ha perduto (non si dice che la pecora
se ne è andata, ma che il pastore l'ha perduta e non può stare
senza di lei), la dracma smarrita, il figliol prodigo... Questo
amore di Dio è così grande che, come ci dice Giovanni: «il Verbo
si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14).
Ora l'Angelo viene ad annunziare a Maria proprio questa grande
notizia: il Verbo vuole diventare carne dentro di lei, ma chiede
il suo assenso. La Parola per diventare carne fa appello alla
libertà di ogni credente. Dio viene a visitare il suo popolo,
visita ciascuno di noi per darci la sua salvezza, ma non violenta
mai la nostra libertà. Maria riceve questa notizia e si domanda
come ciò possa avvenire, visto che, secondo l'esperienza umana,
non esistono i presupposti perché ciò possa accadere. Maria ascolta
questa Parola che la interroga, che scompiglia i suoi progetti:
ella è promessa sposa a Giuseppe; come ogni donna ebrea spera
di essere benedetta da Dio nella prole che le sarà concessa. Maria,
anche se non riesce a comprendere, sa tuttavia che, come l'Angelo
le ha detto, il Signore è con lei; si fida della Parola e mette
a disposizione l’interà sua vita: cuore, corpo, sentimenti, presente
e futuro: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la
tua parola».(Lc 1,38). È bello – commenta Nicolini (“La Parola:
il dono di Dio all’umanità”, pag. 23-24, Ed. San Lorenzo, 2008)
– che Maria metta avanti la sua povertà. Solamente dopo che l'Angelo
la ha rassicurata. Maria pronuncia la frase: «Ecco la serva del
Signore. Avvenga a me secondo la tua parola». Ecco che cosa è
la fede, la risposta di fede: è questo sì alla parola del Signore.
L'iniziativa è tutta di Dio; all'uomo è richiesto un sì. Ed è
proprio un sì nuziale, poiché il Signore vuol vivere insieme a
noi. Perciò chiede se ci va bene, se ci stiamo; e noi rispondiamo
sì. Quindi la vita cristiana non è stare dentro faticosamente
a delle regole, ma è dire sì alla parola che il Signore dice.
Ovviamente non si riesce sempre a rispondere sì: abbiamo sempre
e continuamente bisogno della sua misericordia. Tuttavia bisogna
continuare a dirgli sempre sì. Si sta in entrambe le situazioni:
si è peccatori, ma si risponde anche sì a Dio.
Maria
dice il suo sì e continua a custodire la Parola. Il sì detto,
infatti, non è pronunciato una volta per tutte, la Parola comunicata
chiede di essere chiarita e compresa ogni giorno e deve farci
rileggere, alla sua luce, la nostra vita. Proprio per questo Maria
risponde con questo meraviglioso inno che è il Magnificat, esprimendo
quanto Ella ha compreso della Parola che le è stata rivolta. Ella
ci dice che questa Parola ha radici profonde nella storia d'Israele;
il cantico, infatti, passa dal singolare al plurale e racconta
l'azione di Dio verso tutti. Ella parla così non solo a nome proprio,
ma interpreta il senso degli eventi salvifici a nome dell'intero
popolo di Dio. È l'intera umanità che, sorpresa, esulta: L'anima
mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,
perché ha guardato l'umiltà della sua serva (Lc. 1, 46-48). Il
testo greco recita: tapeinosis, che vuol dire piccolezza, miseria.
La Madonna afferma che «Dio ha guardato alla miseria della sua
serva». In questo momento Maria di Nazaret – afferma Nicolini
(pag. 60) – eredita tutto lo spessore dell'esperienza storica
e di fede di Israele, poiché Israele da sempre ha saputo di essere
un piccolino, un tapino. Così come da sempre ha saputo che la
sua vera forza era solamente una: che Dio stava dalla sua parte.
È la gloria dei testi del libro del Deuteronomio, in cui si legge
che Dio non ha scelto Israele in quanto è il più grande di tutti
i popoli. Anzi, Israele è il più piccolo di tutti i popoli (Dt
7,7 ss). Ma Dio lo ama. Dio ha guardato alla nostra povertà e
ha fatto in noi meraviglie. Non è per nostro merito che siamo
amati da Lui, ma è per sua iniziativa e pura gratuità. Non sono
i nostri sforzi che ci salvano, da soli non riusciremmo a fare
nulla. Qui si comprende – sono ancora parole di Nicolini (pag.
62) – la connessione importantissima tra la fede e la povertà.
La fede è sempre l'esperienza di una povertà visitata, non solamente
in una dimensione negativa; perché altrimenti, prima di ogni esperienza
importante, ognuno vivrebbe l'inadeguatezza della persona al compito
che il buon Dio ha affidato più o meno direttamente. Pertanto
siamo sempre poveri davanti al progetto di Dio e quindi anche
davanti alla bellezza del dono di Dio. Dunque, in realtà, Dio
ci aiuta; altrimenti non sapremmo come fare. Allora la preghiera
della Madonna scaturisce, appunto, dall’esperienza di una povertà
visitata, di un deserto reso fecondo. È sempre una esperienza
di salvezza da parte di Dio, non di adeguatezza da parte dell'uomo.
Noi siamo naturalmente inadeguati, ma la grazia del Signore ci
consente di entrare nel suo dono, di riceverlo, di viverlo. Ogni
tanto lo perdiamo, ma comunque Lui ce lo restituisce: sono le
vicende tumultuose della nostra vita. In tutto ciò il Signore
ha compiuto un grande ribaltamento, poiché nelle cose del mondo,
per avere delle cose grosse, bisogna essere grossi; per capire
delle cose difficili bisogna essere intelligenti; per avere tante
cose, bisogna essere molto ricchi. L'amore di Dio, invece, non
lo si guadagna, lo si accoglie.
Quello
del Magnificat è un cantico composto con numerosi e disparati
testi del primo Testamento, ma non presi a caso che – come dice
Maggioni (pp. 46-47) – costituiscono una vera e propria rilettura
del Primo Testamento, rilettura che avviene sulla base di due
opzioni. Due sono le leggi che – stando al nostro cantico – guidano
la storia di salvezza. La prima è che la salvezza è tutta sospesa
alla gratuita iniziativa di Dio. Il Signore è il protagonista
e i suoi interventi nascono tutti dalla sua fedeltà misericordiosa,
che secondo la Bibbia sembra essere l’attributo fondamentale di
Dio: un'ostinata fedeltà alla parola data (una promessa di salvezza)
che esige, certo, la controparte dell'uomo, ma che resta fedele
anche se la risposta dell'uomo viene meno: «Ha soccorso Israele,
suo servo, ricordandosi della sua misericordia, come aveva promesso
ai padri nostri, per sempre». La seconda è che la salvezza si
attua nella storia degli umili (a loro è rivolta) e Dio conduce
la storia rovesciando le partì (le logiche umane): ha confuso
i sapienti con tutte le loro macchinazioni, ha rovesciato i potenti,
riempie di beni gli affamati e manda i ricchi a mani vuote. Così
Maria ammira il disegno paradossale di Dio, che viene a visitare
gli umili, i poveri, gli affamati, per portare a compimento in
essi, la promessa fatta ad Abramo» (Gruppo di Dombes, “Maria nel
disegno di Dio e nella comunione dei santi”, pag. 90, Ed. Qiqaion,
1998). «Queste sono le leggi che reggono tutto l'Antico Testamento
e costituiscono appunto quella «logica di Dio» che rende intelligibile
la vicenda di Gesù, compreso il suo dato più scandaloso, la Croce».
(Maggioni, pag. 46-47). Maria custode della Parola che interpella
la vita la troviamo, come ho detto all'inizio, in tutti gli altri
episodi in cui il Vangelo parla di lei. Purtroppo, questa sera
dobbiamo fermarci: il tempo assegnato è finito. Vorrei solo ricordare
gli altri episodi del Vangelo in cui appare Maria, a mo' di titoli
e lasciarne alla riflessione personale l'approfondimento. Maria
custodisce la Parola quando il vecchio Simeone, le dirà: Ecco,
egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele
e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà
l'anima –, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori, o
quando al ritrovamento del figlio smarrito durante il viaggio
di ritorno a Gerusalemme e poi ritrovato nel tempio, essi – ci
dice il Vangelo – non compresero ciò che aveva detto loro. Come
ogni credente e ogni discepolo, annota Maggioni (pag. 72), anche
Maria ha percorso un itinerario: ha seguito il cammino di Gesù
che, a poco a poco, in una sorta di continuo contrasto tra gloria
e debolezza, ha svelato non semplicemente di essere Figlio, ma
il modo inatteso e sconcertante di esserlo. E questo lo spazio
del cammino di Maria e del discepolo di ogni tempo.
Un
ultimo particolare: di ambedue i genitori si dice «non compresero»,
ma soltanto di Maria si dice che «custodiva tutte queste cose
nel suo cuore» (2,52). La fede non richiede che subito si comprenda,
però richiede che tutto venga custodito. Non si può conservare
alcune parole di Gesù e altre no, alcuni gestì e altri no. Non
bastano i miracoli per capire chi è Gesù, né bastano i discorsi,
né basta la Croce da sola. Il mistero si affaccia dall'insieme,
non da singoli particolari. La storia di Gesù va conservata nella
sua interezza, pena la sua incomprensione. E nella sua interezza
Maria l'ha vissuta, fino a sotto i piedi della Croce, quando Gesù,
affidandola a Giovanni e affidando Giovanni a lei, le chiede di
amare con lo stesso amore con cui ha amato lui i suoi discepoli
e gli uomini tutti.
SR.
ROSSELLA VELLA
MARIA SOTTO LA CROCE
Questa sera questo passo del vangelo di Giovanni ci porta a fare
un salto indietro nel cammino di questo tempo pasquale che giunge
ormai al termine e ci invita a fare memoria di uno dei momenti
più tragici della vita di Gesù e di quella di Sua madre. Lo sguardo
di un figlio che, nel momento dell’estrema sofferenza, si incrocia
con quello della madre, lo sguardo di un maestro ed amico che
si posa sul discepolo; poche parole di affidamento prima di “rendere
lo spirito”... Quel breve attimo, troppo breve per due persone
che si amano e si trovano a vivere la dolorosa esperienza del
distacco, ma un attimo che diventa, proprio in forza di quell’atto
di offerta, sorgente di un dono prezioso ed inesauribile per ogni
uomo, per la Chiesa, per il mondo. «Non vi lascerò orfani, ritornerò
da voi» (Gv 14,18) aveva promesso Gesù ai suoi discepoli durante
il suo discorso di addio: «Se non me ne vado non verrà a voi il
Consolatore» (Gv 16,7). I suoi amici temono, il loro cuore è turbato…
fuggono davanti a quel mistero troppo grande da comprendere, da
abbracciare, da vivere: la sofferenza, la morte. Solo uno rimane
sotto la croce, il discepolo amato e a lui Gesù, e con lui a tutti
gli uomini, dona ciò che ha di più prezioso, ciò che ancora gli
appartiene dopo che è stato spogliato di tutto: Sua madre. La
promessa prende vita: «Ecco la tua madre». Figlio, amico,
fratello non sei solo: ti lascio mia madre, ci vuole dire Gesù
con queste parole. «Maria Immacolata. Chi è accanto alla croce
come lei? Accanto a Gesù, l’agnello senza macchia, ella è il più
bel fiore della Passione e Maria è, per me, come una via nella
via! Dio mi è stato mostrato come l’abisso dell’Amore…, questo
abisso passa attraverso Gesù per venire a me ed è come se la mia
fragilità (la mia miseria) passasse attraverso Maria per potermi
fare comunicare a questo oceano d’amore» (Il me parle n°233) scriveva
la nostra fondatrice Maria della Passione. E ancora: «È ai piedi
della croce che Maria diventa nostra Madre, è là che ci ha generati
alla vita eterna. Figli dei suoi dolori, comprendiamone le ricchezze
e con ciò anche le ricchezze della croce» (Meditation de la Croix,
p. 4).
L’azione di Maria, della Madre è quella di donare Gesù all’umanità.
All’Annunciazione Maria riceve la vita del Verbo e risponde al
disegno di Dio sulla Sua vita con due parole: «Ecce-fiat» (eccomi-sia).
Davanti alla richiesta di Dio non domanda di saperne le conseguenze…
dice in un atto di amore semplicissimo: «Eccomi, sono la serva
del Signore, avvenga di me quello che hai detto» (Lc 1,38). Mentre
Gesù parlava alle folle un giorno i suoi discepoli e sua madre
lo cercarono e a chi cercò di informarlo Egli rispose: «Chi è
mia madre e chi sono i miei fratelli? Poi stendendo la mano verso
i suoi discepoli disse: Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli;
perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi
è per me fratello, sorella, madre» (Mt 13, 46-50). L’eccomi di
Maria a Nazareth riassume l’offerta di Maria, ma anche l’agonia
di Gesù: Maria si mette in comunione con l’ecce-fiat del Figlio
che nell’orto dei Getsemani pregando supplica: «Abbà, Padre! Tutto
è possibile a te, allontana da me questo calice!». Ma aggiunge:
«Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu» (Mc 14,36). Alla
Visitazione, a Betlemme, all’Epifania, sino al Calvario Maria
è colei che riceve la vita, questa vita della Parola, dell’amore
reso all’umanità, non per lei, ma per donarla: «Un solo desiderio:
donare Gesù. Esternamente non desidera che l’ombra» (MD 229).
Dona la vita: a Gesù prima di tutto nella sua umanità, ma questa
vita si prolunga nei suoi membri, nella Chiesa, in ogni anima,
in noi. E così, come lei, anche noi siamo chiamati a donare la
vita a Gesù, a fare posto a Dio in noi per ricevere l’amore e
trasmetterlo. Come, dove, quando? Con atti semplicissimi d’amore
della nostra vita quotidiana, come a Nazaret; negli incontri con
i fratelli e le sorelle, come alla Visitazione; nei momenti di
prova e di sofferenza che segnano il cammino faticoso della vita,
come al Calvario.
Grazie
al sì di Maria Gesù diviene “Figlio dell’uomo” perché ognuno possa
diventare “figlio di Dio”. Maria collabora come prima discepola
all’opera del Figlio e ci insegna a fare altrettanto. Sotto la
croce Gesù sa che può contare sull’amore, la comprensione e la
fedeltà di Sua madre. Sotto la croce e nel momento in cui anche
i discepoli abbandonano Gesù, Maria è colei la cui fiducia non
vacilla, sostenendo con la sua compassione il figlio in mezzo
a tutte le prove, segno per Lui dell’Amore del Padre, segno per
noi dell’Amore del Padre che ci sostiene, segno per noi della
compassione che siamo chiamati ad avere verso i fratelli che sono
nel dolore. Al Calvario Maria genera la Chiesa. È là che la sua
“missione universale” ricevuta in germe all’Annunciazione diventa
realtà. Gesù morente confida a lei come madre la Chiesa nascente
e tutta l’umanità: Donna, ecco il tuo figlio, nella persona
di Giovanni: Figlio, ecco la tua madre. «Che scambio crudele!
Al posto di Gesù riceve Giovanni; al posto del Signore, il servo;
al posto del maestro, il discepolo; al posto del figlio di Dio,
il figlio di Zebedeo; un uomo al posto di un Dio!» scriveva San
Bernardo. Maria non protesta, Maria non si dispera, Maria non
scappa, non si sottrae alla sofferenza: «Sta» (“stabat”), come
dice il Vangelo, e accoglie. Questo “stare” non è semplicemente
la constatazione di un dato di fatto. Esprime soprattutto condivisione
di vita, sentimenti, indica partecipazione profonda. In quel momento
in cui prendono forma nella sua vita quelle parole pronunciate
alcuni anni prima da Simeone al tempio mentre i genitori portavano
Gesù per offrirlo al Signore – «E anche a te una spada trafiggerà
l’anima» (Lc 2,33) Maria sta “diritta” presso la croce e vive
con tutta la dignità del suo essere donna quella sofferenza estrema.
“Donna”, la chiama infatti Gesù.
È
lo stesso appellativo con cui è chiamata da lui alle nozze di
Cana, quando, presentata nel suo ruolo materno, è attenta, sollecita,
si prende cura degli sposi nel momento in cui manca il vino. Il
vino di cui essi mancano è simbolo di tutte le carenze che l’uomo
sperimenta e per le quali si rivolge a Dio. Ma quel vino è soprattutto
simbolo di Cristo stesso, del suo amore versato senza misura,
amore che toccherà il suo culmine proprio alla croce. Il “vino
“di cui si occupa Maria è quello che ci manca veramente: Gesù.
Se abbiamo lui, abbiamo la gioia della vita, se non abbiamo lui
nulla ci disseta. Maria sotto la croce raccoglie il sangue e l’acqua
che scaturiscono dal costato trafitto del Figlio e li dona a ogni
uomo perché ne beva e perché «quell’acqua diventi in lui sorgente
d’acqua che zampilla per la vita eterna» (Gv 4,14). Lei, donna
ha conosciuto le doglie del parto quando Gesù è venuto alla luce
in questo mondo; lei, donna, sperimenta ora ai piedi della croce
una sofferenza indicibile, ma proprio perché donna sa “sperare”
e diventa segno di consolazione e di speranza per ogni uomo che
è nel dolore. Lei infatti sa che «La donna quando partorisce,
è afflitta, perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla
luce il bambino, non si ricorda più dell’afflizione per la gioia
che è venuto al mondo un uomo», come aveva detto suo figlio ai
discepoli (Gv 16,21). Sotto la croce, unita all’offerta del Figlio,
Maria sperimenta i dolori del parto non di un solo uomo, ma di
ciascun uomo, dell’umanità intera.
Maria,
«la piena di grazia» (Lc 1,27-28), come la saluta l’angelo Gabriele;
Maria, la beata «che ha creduto nell’adempimento delle parole
del Signore» (Lc 1,45), come la saluta la cugina Elisabetta; Maria,
la Madre della Speranza come l’acclama e la prega ogni fedele.
E allora lei donna, lei Madre può ripetere ora, sotto la croce,
facendosi portavoce di ogni uomo, quel canto del Magnificat, proclamato
alla Visitazione: «L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito
esulta in Dio, mio Salvatore perché ha soccorso Israele, suo servo,
ricordandosi della sua misericordia come aveva promesso ai nostri
padri, ad Abramo, alla sua discendenza, per sempre» (Lc 1,46-55).
Figlia di Israele, Maria chiama il Messia, implora la salvezza.
Non resta isolata nella sua relazione a Dio, appartiene a un popolo,
ne è solidale e ci invita come lei a pregare per il mondo, a chiamare
il regno evangelico, «a prenderla nella nostra casa», tra le cose
proprie, come ha fatto il discepolo amato. Infatti dall’Ora della
passione, in cui si compiono gli eventi decisivi della salvezza,
il discepolo accoglie la madre come uno dei beni spirituali della
sua appartenenza a Gesù. Allora anche noi siamo chiamati a riceverla
come dono in tutto lo spazio della nostra vita interiore, a permetterle
di esercitare la sua maternità e di ascoltarne l’invito di percorre
questa via nella via che ci porta a Gesù. Quando Gesù tornerà
al Padre, all’Ascensione, è attorno a lei, la Credente senza incertezze,
la Testimone delle origini, che si costruisce l’unità dei discepoli
dispersi con la presenza invisibile del Risorto e nell’attesa
dello Spirito Santo promesso. Con tutto il suo essere ella insegna
come accogliere, nel modo in cui l’ha sempre fatto, la sua azione
vivificante, che farà nascere da questo piccolo gruppo la Chiesa,
“corpo di Cristo”, e le darà le dimensioni del mondo.
Scriveva
Maria della Passione nel giorno della Pentecoste: «Maria è la
Regina degli Apostoli, Maria la “piena di grazia” (Lc 1,27-28).
Dopo avere generato Gesù, il Dio vivente, oggi, Madre dei viventi,
ella genera la Chiesa attraverso l’opera nuova dello Spirito Santo.
In Maria si fonde la Chiesa, anima e corpo. Ella la genera al
Cenacolo, come aveva generato l’Emmanuele» (Meditation mardi de
la Pentecote). «Questa Vergine, così pura, così umile, ha fatto
la pace tra il cielo e la terra». Lei è la donna dal vero potere,
che solo è degna di essere salutata da ogni fedele con le stesse
parole usate da san Francesco per lodare la sua grandezza: «Ti
saluto, Signora santa, regina santissima, Madre di Dio, Maria,
che sempre sei Vergine, eletta dal santissimo Padre celeste e
da Lui,
col santissimo Figlio diletto e con lo Spirito Santo Paraclito,
consacrata.
Tu in cui fu ed è ogni pienezza di grazia e ogni bene.
Ti saluto, suo palazzo. Ti saluto, sua tenda.
Ti saluto, sua casa. Ti saluto, suo vestimento.
Ti saluto, sua ancella. Ti saluto, sua Madre» (Fonti francescane
n. 259).
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