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UNA
CHIESA CHE ABBIA LO STILE DI MARIA
Quando
ho iniziato a scrivere, lo scorso ottobre, queste tre pagine che
aprono il nostro Notiziario mensile non avevo un piano, un disegno.
Avevo, lo confesso, disagio nell’occupare lo spazio che don Angelo
per molti anni aveva segnato con i suoi testi singolarmente intensi
e di pregevole fattura. Poi il primo suggerimento mi è stato dato
dall’Evangelo dei crocicchi: ricordate la parabola dei servi mandati
agli angoli delle strade per chiamare tutti, proprio tutti, alla
festa. Era l’evangelo della Messa di inizio del mio lavoro di
parroco. E così ha cominciato a prender forma in me il desiderio
di scoprire, mese dopo mese su queste pagine, il volto della chiesa,
il volto della comunità che ero chiamato a servire in questo quartiere
della città. Chiesa dei crocicchi, chiesa nelle case e delle case,
chiesa del dialogo, chiesa della gioia, dell’esultanza. E adesso:
chiesa mariana.
Il
mese di maggio è tradizionalmente dedicato alla Madre del Signore
e sembra quindi ovvio che il Notiziario di maggio abbia una intonazione
mariana. In verità lo spunto per questa riflessione mi è stato
dato dal nostro indimenticabile cardinale Carlo Maria Martini.
Quante volte, negli anni del suo episcopato a Milano, ha richiamato
quelli che considerava i due “principi”, cioè i due elementi costitutivi
della chiesa: il principio mariano e quello petrino. Lasciamo
il secondo per il prossimo mese di giugno quando celebreremo anche
Pietro (insieme a Paolo) e concentriamoci ora sul principio mariano
della chiesa. Principio “mariano” perché Maria è colei che «custodiva
la Parola nel suo cuore» (Lc 2,19).
Diceva il cardinale Martini: «La figura di Maria ci richiama alla
fede semplice e pronta di colei che ha creduto nell’adempimento
delle parole del Signore, all’umiltà della serva del Signore,
al calore umano di chi si mette in viaggio verso la montagna,
in fretta, per congratularsi con la parente Elisabetta. La presenza
di Maria valorizza il senso della attenzione premurosa e discreta
di colei che ha notato ciò che poteva turbare una festa di nozze,
mentre la sua tenerezza di Madre e il suo dolore silenzioso presso
la croce del Figlio, ci fanno mettere in primo piano nella nostra
esistenza quei gesti di attenzione alla vita e di compassione
nella sofferenza e di fronte alla morte di cui spesso deploriamo
dolorosamente il declino».
In altre parole, «il principio mariano allude alla dimensione
interna della chiesa, alla radice verginale della sua maternità,
al fatto che il suo amore suscitatore di vita, di speranza, di
perdono, di senso per la storia umana, nasce dalla fede, dalla
disponibilità incondizionata, dall’appartenenza totale e immediata
alla parola di Dio». Prima d’essere una organizzazione la chiesa
è un grembo materno, ovvero uno spazio di accoglienza. Confesso
che quando lo scorso anno mi sono messo a disposizione dell’arcivescovo
per assumere questo compito di parroco mi ha mosso il desiderio
di dar forma ad un’esperienza di chiesa che fosse bello incontrare,
dove si potesse entrare senza esitazioni, non come in un ufficio
che mette a disagio, ma come in una casa. Una chiesa che riducesse
al minimo le formalità burocratiche (alcune sono inevitabili come
nel caso del matrimonio dal momento che il parroco è anche ufficiale
di stato civile grazie al Concordato!).
Ho cominciato col mutare il linguaggio: se vengono i genitori
a chiedere di poter battezzare il proprio figlio in una altra
chiesa mi guardo bene dallo scrivere come si usa: Il sottoscritto
parroco … concede la licenza perché il battesimo venga amministrato
a …. Mi piace scrivere invece: Sono lieto che il piccolo … possa
essere battezzato nella parrocchia di …. Sfumatura insignificante?
Forse, ma davvero sono lieto che i gesti della fede – i sacramenti
– vengano compiuti da mani amiche, in luoghi significativi per
quella famiglia.
Uso il medesimo criterio per quelle coppie, e sono la stragrande
maggioranza, che chiedono di celebrare il proprio matrimonio altrove:
al paese di origine, in luoghi più suggestivi o segnati da qualche
ricordo caro. So che molti miei confratelli non condividono questo
mio modo di agire: rivendicano il primato della parrocchia e considerano
superficiali le motivazioni di quanti cercano luoghi “romantici”
… Sono molto felice di accompagnare personalmente tutte le coppie
nel percorso prematrimoniale e sono altrettanto felice che celebrino
il loro matrimonio in un luogo per loro significativo, anche se
non è la nostra chiesa parrocchiale.
Mi sembra, in questo modo, di fare spazio ad uno stile “mariano”
della chiesa, o mi sbaglio? Ma più profondamente l’attenzione
al “principio mariano” della chiesa vuol dire attenzione alla
dimensione di interiorità della fede, al primato della coscienza
nel cammino di fede.
E
questo è raccomandato anche dalle mutate condizioni in cui siamo
chiamati a vivere la fede: non più in un ambiente tutto segnato
da valori religiosi assorbiti con il latte materno. Stiamo vivendo
infatti il trapasso da una società dominata da riferimenti all’esperienza
della fede cristiana, ad una società nella quale prevalgono valori
e riferimenti estranei o addirittura contrari all’esperienza della
fede. Per conseguenza l’esperienza di fede deve essere radicata
nella coscienza e non solo nei comportamenti collettivi o nell’ambiente.
L’uomo è la sua interiorità, il suo cuore, la sua coscienza. È
nel segreto della coscienza che troviamo Dio, che conosciamo il
bene e il male. La chiarezza sul valore che portiamo in noi stessi
è quella che ci rende veramente e definitivamente uomini, capaci
di decidere per principi interiori e per convinzioni personali.
Quanto mai preziosa è la dottrina di san Tommaso d’Aquino: la
legge nuova, evangelica, consiste nello stesso Spirito Santo.
Comandamenti e precetti sono indicazioni successive che devono
essere accolte nell’interiorità della coscienza, sotto l’azione
dello Spirito. Chiesa “mariana” è chiesa guidata dallo Spirito,
quello Spirito che ha formato nel grembo di Maria l’umanità di
Gesù. E il dono dello Spirito presente nei nostri cuori ci conduce
a vivere secondo lo stile di Cristo, lo stile dell’amore. Una
chiesa mariana non sarà una chiesa dei precetti e dei divieti,
che presenta il Vangelo come un fardello pesante, un penoso dovere
da compiere con scrupolo, ma come il manifestarsi gioioso della
presenza in noi dello Spirito. Ecco perché la nostra comunità
privilegia un lavoro di formazione della coscienza rispetto alle
cosiddette “pratiche religiose”. Nasce qui l’attenzione privilegiata
a quella singolare iniziativa denominata Cattedra dei non credenti:
uno spazio di ascolto, confronto, aperto e rispettoso di ogni
seria posizione di ricerca, lasciando emergere con le certezze,
i dubbi e le inquietudini che abitano il nostro cuore. In questo
anno abbiamo avuto ben dieci serate di ascolto, dialogo, confronto
che hanno richiamato un pubblico talvolta molto numeroso e sempre
intensamente coinvolto. Vorrei qui ricordare i nomi di quanti
ci hanno accompagnati e aiutati in questa ricerca. Trovino qui
ancora una volta l’espressione della nostra gratitudine. In autunno
sul tema delle nostre paure: Silvia Vegetti Finzi, Gad Lerner,
Adalberto Piovano e Lidia Maggi. In inverno sul tema della crisi
economica: Tito Boeri, Marco Vitale e Gian Giacomo Schiavi, Ferruccio
de Bortoli, Ulrich Eckert. E le due serate suggerite dall’attualità:
con Stefano Levi Della Torre e il dialogo con l’ebraismo e con
Giovanni Barbareschi per non dimenticare gli anni della Resistenza.
Una
chiesa “mariana” è dono di umanità, di pace, di comunione, di
speranza e di coraggio in una società tecnologicamente avanzata,
dura e competitiva. Essa dice a ogni uomo che Dio, il Padre, è
buono; che Egli, in Cristo Gesù, cammina con noi, ci è vicino
con la sua misericordia e che sempre nel Signore Gesù, continua
a parlarci come il misterioso pellegrino di Emmaus. Infine una
chiesa “mariana” vorrà avere sulle sue labbra le parole che Maria
ha pronunciato. Poche parole e già questa è una indicazione di
stile per una chiesa “logorroica” malata per troppe parole. Nel
quarto Vangelo Maria dice solo due parole: in esse ritrovo appieno
lo stile mariano. Siamo a Cana e la festa di nozze rischia di
finire male per mancanza di vino. Ecco la prima parola di Maria
rivolta a Gesù: Non hanno più vino. Osservazione banale? No, Maria
è questo sguardo intuitivo capace di cogliere il disagio degli
sposi, capace di leggere dentro di noi che cosa ci manca, di che
cosa abbiamo bisogno. Quando, soprattutto nell’ora del bisogno,
istintivamente ci rivolgiamo a Maria ci guida la certezza che
il suo sguardo conosce le nostre necessità. Una chiesa “mariana”
è, come Maria, uno sguardo carico di attenzione vigile, premura
materna per ogni necessità, perché non venga meno la gioia nei
nostri cuori. E la seconda parola di Maria ai servi: «Fate quello
che Lui, il mio Figlio, vi dirà». Ad ognuno di noi, alla chiesa
tutta Maria dice sempre e solo questo: volgetevi al mio Figlio,
ascoltate la sua Parola, vivete di essa. Una chiesa “mariana”
non ha altro da dire e non è poco.
don
Giuseppe
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Il
pastore buono
omelia
di don Giuseppe nella quarta domenica di Pasqua
domenica 3 maggio 2009 (At
20, 7-12; 1 Tm 4, 12-16; Gv 10, 27-30)
Rimandiamo
la lettura dell'omelia su questo sito alla voce "omelie"
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IL
CENTRO D’ASCOLTO DECANALE
Un
Centro di Ascolto Caritas è una delle espressioni operative della
Comunità Cristiana che si mette al servizio delle persone in difficoltà,
che qui trovano ascolto, considerazione e risposte concrete ai
loro bisogni.
Il Centro opera attraverso il gruppo dei Volontari. Accoglie con
amicizia e senza pregiudizi chiunque abbia un problema e, dopo
un colloquio iniziale, cerca di orientare la persona in difficoltà
e, se necessario, la accompagna nella ricerca di una soluzione.
Lo scopo di un Centro è quello di esprimere lo spirito evangelico
della testimonianza della carità, diffondere cultura di solidarietà,
tutelare i diritti della persona, anche la più debole ed emarginata.
L’ascolto è un bene, è una gioia, perché nella vicenda di chi
è nel bisogno si riconoscono i tratti comuni della nostra condizione
umana e si vive un momento di fraternità ritrovata.
Il problema principale è lo scarso numero dei volontari, che non
permette di operare con maggiore efficacia e prontezza, mentre
cresce sempre più il numero delle persone che si rivolgono al
Centro.
Altro
problema è la scarsità delle risorse, che non ci permette di dare
una risposta adeguata e concreta alle molte persone – quasi esclusivamente
straniere – che ci chiedono di aiutarle a trovare un lavoro, soprattutto
lavoro domestico: badanti, assistenza anziani e ammalati, babysitter.
Rivolgiamo, quindi, un appello a tutte le persone di buona volontà
della Comunità Cristiana perché diano la loro disponibilità a
fare volontariato nel Centro di Ascolto nei tempi e nei modi che
potremo stabilire insieme. Oppure ci segnalino ogni opportunità
di lavoro, domestico e non, da poter trasmettere a chi ne ha necessità
vitale. Il Centro di Ascolto Decanale Città Studi sarà molto grato
a chi lo vorrà contattare – di persona o per telefono – anche
solo per ulteriori informazioni.
Centro
di Ascolto Decanale Città Studi, presso la Parrocchia Santo Spirito,
via Bassini 50, Milano. Apertura: giovedì dalle ore 15 alle 18.
Cellulare 320/2484932. In altri giorni ed orari, telefonare a:
Fiammetta 02/26684333 oppure Vittoria 328/4097952 oppure Stefania
02/70636017.
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RIBELLI
PER AMORE
Martedì
21 aprile scorso abbiamo avuto il piacere di ascoltare don Giovanni
Barbareschi sulla sua esperienza degli anni della Resistenza.
Riportiamo alcuni stralci dell’incontro.
Le mie parole, questa sera, sono una testimonianza. Dovrei quindi
parlarvi di me, della mia esperienza umana. Ma ho vergogna e paura...
Vergogna di essere giudicato orgoglioso, paura di sembrare retorico.
Cercherò di parlarvi di me come se parlassi di un’altra persona.
La mia famiglia era povera ed eravamo quattro figli. Mio padre
non è mai stato iscritto al Partito fascista e per questo ha avuto
notevoli difficoltà nel suo lavoro. Io, balilla di dodici, quattordici
anni, ero tutto orgoglioso quando alla domenica tornavo dalla
adunata, e raccontavo a mio padre che ci avevano portato a messa,
inquadrati, e che anche durante la liturgia avevamo in testa il
nostro fez, e che alla consacrazione scattavamo sull’attenti al
suono della tromba. Mio padre commentava: «Quella messa non vale
niente perché non eravate liberi di partecipare». Ricordo anche
il 18 novembre 1936, e la consegna delle fedi nuziali come oro
alla patria. Mio padre ha proibito alla mamma di consegnare quella
fede nuziale che ha poi avuto una destinazione migliore: il calice
della mia prima messa.
Negli anni che padre David Turoldo ha chiamato «gli anni del rischio»
– 1943-1945 – io avevo ventuno anni. Tormentata la mia adolescenza
e la mia prima giovinezza: è stata tutta un’avventura alla ricerca
della verità e della libertà. Ho adorato l’intelligenza per la
sua capacità e profondità. Ma poi, nella vita, ho incontrato i
limiti dell’intelligenza: che significa verità di un’amicizia,
verità di un amore...? Mi sono accorto che non cercavo la verità,
ma volevo conquistarla, possederla, farla mia, volevo che fosse
la conclusione di un mio ragionamento. Cercavo l’evidenza... E
invece la verità è mistero. L’evidenza rimarrà sempre alla superficie
della verità.
Più tardi, nel faticoso cammino di ricerca, l’incontro con quella
frase di san Paolo nella lettera ai Galati: «In libertate vocati
estis», ogni uomo è chiamato a realizzare la sua libertà. E così
mi sono innamorato della libertà: è stata la parola di Dio a me,
il volto che Dio mi ha rivelato. E mi sono convinto che la distinzione
tra uomini atei o credenti era una distinzione culturale. La terminologia
più universale e umana era diversa, era quella che troviamo nella
Bibbia: uomo schiavo o uomo libero. Quando un uomo o un gruppo
o un popolo intero cerca la sua libertà, psicologica, religiosa,
personale, politica, che lo sappia o no, quella persona, quel
popolo cerca Dio. Ho raggiunto poi la certezza che il primo atto
di fede che l’essere umano deve compiere è nella sua libertà,
nella sua capacità di diventare una persona libera. Ho detto atto
di fede, perché la libertà della persona non si può dimostrare.
Infatti, ho incontrato subito innumerevoli condizionamenti: quelli
di un patrimonio genetico, di un ambiente, di una cultura, di
un’educazione ricevuta, di una religione imposta. Tutto questo
è vero. La mia libertà è una piccola isola in un oceano di condizionamenti,
ma io – e con me ogni uomo – posso nascere come persona libera
solo in quella piccola isola. E sono diventato prete per questo,
perché ho capito che era la mia strada per aiutare ogni uomo,
a raggiungere la sua libertà, tutta la libertà di cui è capace,
tutta la sua possibilità di amore.
Con queste idee maturate dentro di me mi sono trovato nei giorni
della scelta e del rischio. Trovandomi in una situazione storica
in cui la libertà veniva negata, le persone venivano imprigionate
e perseguitate per la loro appartenenza a una razza o per le loro
idee, è stato logico per me mettermi dalla parte di coloro che
difendevano la libertà, la libertà mia, la libertà di ogni uomo.
Ho celebrato la mia prima messa il 15 agosto 1944. La sera stessa,
mentre cercavo di portare aiuto e conforto a un gruppo di ebrei
in partenza per un campo di concentramento, sono stato arrestato
dalle SS e sono finito a San Vittore, raggio V, cella 102. Poco
dopo bussa alla mia cella un secondino e mi chiede se sono prete
davvero. Alla mia risposta «ho celebrato la mia prima messa questa
mattina», quel secondino mi dice che in una cella accanto alcuni
giovani che sarebbero stati fucilati la mattina seguente avevano
chiesto un sacerdote. Sono state le mie prime confessioni. Dopo
un primo periodo di isolamento e dopo più di un mese di interrogatori
e torture, per intervento del cardinale Schuster sono stato liberato.
Per descrivere la situazione esterna che allora ci circondava
leggo un documento del cardinale Schuster del 6 luglio 1944, documento
che non ottenne il permesso, allora necessario, di pubblicazione:
«... una lotta fratricida, con vittime innocenti, una lotta fatta
di odio, di livore umano, una vera caccia all’uomo, con metodi
così crudeli che farebbero disonore alle belve della foresta...».
Dice ancora il cardinale Schuster in un documento del 30 ottobre
1944: «... Mentre a Milano un mese fa vi erano almeno sette Questure
indipendenti tra di loro, adesso ogni ufficiale che presiede a
una squadra di una cinquantina di uomini si crede autorizzato
ad assaltare villaggi, a incendiare cascinali, a tradurre in prigione,
a seviziare, a fucilare...». A questa situazione, con alcuni amici,
ci siamo ribellati e abbiamo dato vita a un giornale clandestino
- «il Ribelle» - per diffondere le nostre idee. E ci siamo compromessi,
per ogni fratello emarginato, per l’ebreo, per il forestiero,
per il ricercato. Quanti i documenti falsi che abbiamo confezionato?
Certamente non tenevamo registrazioni, era troppo pericoloso.
Chi ha tentato di quantificare ha scritto che il nostro gruppo
- OSCAR (Opera Scoutistica Cattolica Aiuto Ricercati) -ha prodotto
circa tremila documenti falsi - anche falsi certificati di battesimo
- e ha portato a termine circa duemila espatri. Questa nostra
fatica, questo nostro continuo rischio della vita era da noi considerato
normale, era il dovere chiesto dal momento presente a ogni uomo.
Giovanni Paolo II nel suo discorso del 9 aprile 1985, così ci
ha definito: «Resistettero non per opporre violenza a violenza,
odio contro odio, ma per affermare un diritto e una libertà per
sé e per gli altri, anche per i figli di chi allora era oppressore.
Per questo furono martiri ed eroi. Questa fu la loro Resistenza».
Perdonatemi se io, prete ribelle, ho una parola particolare per
i miei confratelli. Preti delle parrocchie di confine che avvertono
improvvisamente il significato provvidenziale della loro presenza
in quel paese, in quel giorno. Preti delle città e delle campagne
che raccolgono e distribuiscono la stampa clandestina per diffondere
alcune idee allora proibite, preti che falsificano documenti per
reagire all’ingiustizia e affermare che anche l’ebreo è una persona
umana, preti che sentono il dovere di seguire in montagna, nei
nuclei partigiani, i giovani del loro oratorio e assicurare l’assistenza
religiosa. Permettetemi anche una parola per i gesti umili, banali,
che nessuno ha annotato, che nessuno saprà mai: una porta di casa
che si apre e accoglie, come ha fatto mia mamma nella sua casa,
una parola detta, un’altra taciuta, un segreto mantenuto, un documento
consegnato, un soccorso prestato senza neppure sapere a chi...
Gesti che nel segreto della coscienza sono stati atti di resistenza,
di solidarietà ai fratelli perseguitati, atti che hanno richiesto
coraggio, decisione, sacrificio.
La Resistenza è stata anzitutto una ribellione morale, la scelta
consapevole dell’umano contro il disumano. Preti che hanno coinvolto
nella ribellione e nella testimonianza cristiana il loro popolo.
Questi preti non erano degli isolati, non avrebbero potuto fare
senza la simpatia, la presenza di tutto un popolo, della gente
semplice che con lo spirito di sacrificio, di speranza, costituiva
il tessuto connettivo di base capace di sostenere uno sforzo etico
così esigente. Proprio questo coinvolgimento dei preti con il
loro popolo li rese oggetto primo delle violenze tedesche e fasciste.
Permettetemi di leggere qualcosa del nostro giornale - «Il Ribelle»
- con il quale cercavamo di opporci al sistema vigente e di diffondere
alcune idee nelle quali credevamo allora e crediamo oggi.
Tra il 1944 e il 1945 furono 26 i numeri del «Ribelle». La tiratura
era di 15.000 copie. Al giornale furono affiancati i Quaderni
(11 numeri – 10.000 copie), nei quali si stilarono i principi
cardine della società che sognavamo di ricostruire dopo la liberazione.
Per stampare e diffondere quel misero foglio che pretendeva di
essere un giornale, più di uno di noi è finito in carcere, in
concentramento, più di uno non è tornato... e lo sapevamo di giocare
con la morte. «Ribelli: così ci chiamano, così siamo, così ci
vogliamo. La nostra è anzitutto una rivolta morale... è rivolta
contro un sistema, contro un modo di pensare e di vivere, contro
una concezione del mondo». Le nostre idee Già nel primo numero
programmatico avevamo affermato chiaramente : «Il Ribelle non
vuole essere un giornale di partito». E in seguito, ancora più
esplicitamente abbiamo affermato nel numero 13 del 30 settembre
1944: «Noi del Ribelle non siamo liberali. Noi del Ribelle non
siamo democristiani. Noi del Ribelle non siamo del Partito d’Azione,
non siamo comunisti, non siamo socialisti, e non siamo neppure
progressisti, né, Dio ce ne scampi, monarchici. Se avviene dunque
che i democristiani ti credano dei loro e dei più puri, se avviene
che i liberali affermino che noi facciamo del più bel liberalismo,
se avviene che qualcuno ci creda emanazione del Partito d’Azione,
la colpa sapete di chi è? Del nostro far sincero, del nostro parlare
onesto. Ché in casa nostra spira buon vento di sincerità, di libertà,
e ognuno può o sa dire e difendere il proprio ideale. E ognuno
cerca di capire, di discutere e talvolta anche di accettare. Ma
redini sul collo e niente paraocchi».
Eravamo un piccolo gruppo e volevamo che il nostro giornale fosse
una palestra per rendere coscienti della situazione presente e
aiutare la crescita di ogni persona: e questa non era solamente
una teoria. Il giornale fu proprio una palestra di libera discussione,
dopo tanti anni di stanchezza del giogo fascista. Per esempio,
quel «né, Dio ne scampi, monarchici» impose un articolo in difesa
della monarchia. E lo pubblicammo onestamente, anche se non eravamo
d’accordo. Eravamo innamorati della libertà, il volto attraverso
il quale Dio aveva parlato a ciascuno di noi. «Chi prova quale
alto e fecondo godimento dello spirito sia questa nostra libertà
che nessuno ci può togliere, ne sente tutto l’impegno costruttivo,
impegno serio, religioso; per questa libertà lottiamo ogni giorno
perché sappiamo che la libertà, quella vera, non può essere largita
dagli altri. Non vi sono liberatori. Solo uomini che si liberano»
(«il Ribelle», 26 marzo 1944). Per questo sulla prima pagina del
nostro giornale più volte abbiamo stampato la frase di Giuseppe
Mazzini: «Più della servitù, temo la libertà recata in dono».
Riprendo a leggere dal nostro giornale: «Bisogna saper invocare
l’unica rivoluzione legittima, quella dello spirito, che porta
il tumulto nella nostra più profonda interiorità per purificarla
e trasformarla. È una rivoluzione permanente, perché la vita dello
spirito è una perenne conquista sulla propria pigrizia, sulle
proprie debolezze, sulle proprie viltà. Come chiamare questo amore
di verità e libertà, questa pienezza di vita spirituale, che mentre
perfeziona l’uomo nella sua totalità vuole totalmente donarsi
agli altri per essere fermento puro nel mondo che rinasce? Un
cristiano la chiamerebbe santità. Qualunque sia il nome che le
si voglia dare, è certo che di fronte alla massa inerte, indifferente,
opaca del nostro mondo attuale, questa è la sola cosa che vale»
(«il Ribelle», 24 settembre 1944). «Da questo nasce il nostro
impegno ad essere prima che ad operare. L’uomo nuovo non lo fanno
le istituzioni, né le leggi, ma un lavoro interiore, uno sforzo
costante su se stesso che non può essere sostituito da surrogati
di nessun genere. Le leggi e le istituzioni sostengono e aiutano
questo sforzo, ma non possono assumerlo su di sé» («il Ribelle»,
4 novembre 1944). «Noi influiremo sul mondo più per quello che
siamo che per quello che diciamo o facciamo» («il Ribelle», 15
ottobre 1944).
Ascoltate ora come ci definivamo, noi, ribelli della città: «Nelle
città affannate e sanguinanti, passano accanto a noi uomini incolori.
Sgattaiolano, svincolano, fra le insidie dei mitra e dei questurini,
dimenticando i loro nomi nella ridda di documenti falsi e di presentazioni
monche. Sembrano giocare, ma la posta è la vita. Sono i ribelli
della città. A vederli sono tanti commessi viaggiatori. Si incontrano,
si parlano, e vanno. Dunque proprio siam morti alla fede? Proprio
siam sordi all’entusiasmo? Proprio non conosciamo amore? Vedendoli,
sentendoli, vien voglia di dire di sì. Inutile, si vorrebbe loro
gridare. Non voi, senza amore, ricostruirete l’Italia. E non è
giusto. E non è vero... Abbiamo paura, paura di usare parole ormai
rovinate; temiamo i sentimenti insudiciati, ci vergogniamo di
slanci già sfruttati fino allo schifo. E tacciamo, e ci nascondiamo.
Continuiamo a tacere portandoci addosso quest’ultima maledizione
fascista, questa paura di amare per orrore della retorica. Se
questa aridità interiore non fosse solo apparente, allora non
avremmo che da tirarci di lato e lasciar fare agli altri ... che
anche una guerra solo per amore si vince, solo quando si giunga
a dolorosamente amare il proprio nemico, a sentire nelle proprie
carni la ferita inferta, a spasimare insieme d’amore per noi e
per la nostra terra, per lui e per la sua terra» («il Ribelle»,
26 marzo 1944). Mi sembra fondamentale una domanda: ci siamo liberati
o piuttosto abbiamo abbattuto un faraone e abbiamo assistito alla
comparsa di altri faraoni? Perché il fascismo non è solo una dottrina
o un partito, una camicia nera o un saluto romano.
Il fascismo è un modo di vivere nel quale ci si arrende e ci si
piega per amore del quieto vivere o; di carriera. È una mentalità
nella quale la verità non è amata e servita perché verità, ma
è falsata, ridotta, tradita, resa strumento per i propri fini
personali o di gruppo o di partito. È una mentalità nella quale
teniamo più all’apparenza che all’essere, amiamo ripetere frasi
imparate a memoria, non personalmente assimilate, e gridarle tutti
insieme quasi volendo sostituire l’appoggio del mancato giudizio
critico con l’emotività di una adesione psicologica, fanatica.
A fare di noi persone libere non saranno mai gli altri, non sono
le strutture e neppure le ideologie. Continuando il discorso delle
Beatitudini non avrei paura ad affermare: «Beato colui che sa
resistere». Questo invito a una «resistenza» è rivolto a ogni
uomo che crede possibile e vuole diventare uomo libero, senza
trovare nelle difficili situazioni esterne (quali situazioni più
difficili di allora?) il rifugio o la scusa alla propria pigrizia.
Termino questa testimonianza con le parole della nostra preghiera:
«Dio, che sei Verità e Libertà, facci liberi e intensi: alita
nel nostro proposito, tendi la nostra volontà. Quanto più s’addensa
e incupisce l’avversario facci limpidi e diritti. Ascolta la preghiera
di noi, ribelli per amore».
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INFORMARSI È LA PRIMA FORMA DI CARITÀ
Ce
lo ricordava padre Nicola Colasuonno direttore della EMI (Editrice
Missionaria Italiana) intervenuto anche lui alla prima fiera (in
assoluto) delle riviste missionarie mai tenutasi in Italia. L’abbiamo
promossa come Commissione Sociopolitica e Mondialità della parrocchia
perché ci siamo resi conto della necessità, ancora una volta,
di dover allargare gli orizzonti della nostra riflessione sul
mondo. È ancora troppo rumoroso il silenzio rispetto ad alcune
zone del mondo (Africa e Asia in particolare), è ancora pietistica
la visione che abbiamo delle popolazioni più povere. Per questo
abbiamo chiesto ad alcune fra le più importanti riviste missionarie
presenti in Italia di venire a presentare il loro lavoro in una
fiera che si è tenuta domenica 26 aprile nei locali dell’oratorio.
Il
titolo era significativo: «L’altra faccia dell’informazione. Il
mondo visto da Sud», che indicava il desiderio di guardare il
pianeta con occhi diversi. Nonostante la scarsa affluenza di pubblico
dovuta probabilmente alla vicinanza della festività della Festa
della Liberazione e al tempo inclemente, la fiera ha raggiunto
due obiettivi importanti: 1. intrecciare relazioni e iniziare
i contatti con le riviste missionarie; 2. dare voce a chi da Sud
guarda il mondo. L’importanza dei missionari non viene solo dalle
“opere buone” di solidarietà, peraltro di vitale importanza, ma
anche dal fatto che i consacrati e i laici in missione contribuiscono
a fare cultura, ci insegnano un rapporto diverso con il mondo
e con gli altri, con l’“altro”. Il giornalista e inviato RAI per
l’Africa Enzo Nucci aveva detto all’inizio del suo lavoro che
i missionari erano “le sue antenne” a indicare come in certe zone
del mondo è la presenza costante al fianco delle persone e dentro
le situazioni della chiesa che testimonia esperienze e vissuti
a noi sconosciuti.
La
grande stampa e i media tacciono gran parte delle notizie sul
Sud del mondo e ci offrono solo frammenti di una realtà plurale,
complessa, mutevole che noi difficilmente possiamo capire. Ormai
però questa realtà ci è vicina di casa con il fenomeno migratorio
e quindi oggi più che mai ci riguarda da vicino. Inoltre ascoltare
la voce dei missionari è un modo per essere e fare chiesa. Perché
conoscere la sofferenza e la gioia anche di chi è lontano, è una
caratteristica indicata dal Concilio Vaticano II (cfr. Gaudium
et Spes) che vedeva in ogni cultura e in ogni luogo i semi del
Verbo. I missionari ci invitano ad allargare gli orizzonti della
nostra fede e, di conseguenza, a pensare in grande la nostra missione.
Ogni nostro gesto influisce su luoghi lontani per questo siamo
chiamati a conoscere come e a fare in modo che sia un bene per
l’altro, per tutti.
Per
questo la commissione Sociopolitica e mondialità ha pensato di
proporre un evento nuovo, unico, il primo in Italia, come la Fiera
della riviste missionarie. Le riviste hanno risposto con entusiasmo
così come l’editrice EMI (Editrice missionaria italiana). Erano
presenti i comboniani con Nigrizia, le riviste saveriane (CEM
mondialità, Missione oggi), il PIME con Mondo e Missione, i francescani
con Popoli, Missioni francescane e le missionarie dell’Immacolata.
Ci auguriamo che l’evento possa ripetersi, più in grande, con
maggiore precisione e competenza. Intanto questa esperienza ci
ha lasciato in dono l’entusiasmo e la voglia di fare delle persone
che abbiamo incontrato.
La
Commissione Socio-politica e Mondialità
LE
RADICI DELLA NOSTRA COMUNITÀ
La nostra parrocchia compie quest’anno 75 anni. Con il Consiglio
pastorale si è deciso di ricordare questa data nel prossimo autunno
e abbiamo invitato a venire in mezzo a noi l’arcivescovo cardinale
Tettamanzi. In attesa della sua conferma vogliamo incominciare
a ripercorrere la storia della nostra comunità.
Nel
1934, appunto settantacinque anni fa, veniva demolita una antica
chiesa, nel centro di Milano, allora considerata monumento nazionale,
dedicata a san Giovanni in Laterano. In verità il declino di quella
antica chiesa era iniziato da tempo: dal 1787 nell’Archivio della
Parrocchia del Duomo cessano gli inventari dei beni artistici
di san Giovanni in Laterano, segno che la chiesa era stata soppressa.
Da allora diventa sussidiaria di santa Maria presso san Satiro
e inizia la sua decadenza. Chiusa al culto alla fine del XIX secolo
e trasformata in magazzino militare durante la prima guerra mondiale
venne appunto demolita nel 1934. Con un decreto dello stesso anno
il titolo di san Giovanni in Laterano fu assegnato alla chiesa
della Madonna di Pompei, costruita nel 1928 sull’area dell’antico
oratorio dei S.S. Fermo e Rustico alle cascine Doppie, come sussidiaria
della parrocchia del Redentore.
La
nostra parrocchia ha solo 75 anni ma in verità la sua storia,
come abbiamo visto, è assai più antica a cominciare dal suo un
po’ singolare e curioso titolo: san Giovanni in Laterano che deriva
da quella antichissima chiesa situata nel centro di Milano a pochi
passi dal Duomo, tra l’attuale via Paolo da Canobbio e piazza
Diaz, all’incrocio tra quelle che allora erano via del Pesce e
via dei Tre Re. Una mappa catastale del 1722 indica appunto S.
Gio Laterano che si affaccia sulla via dei Tre Re. Le notizie
storiche la fanno datare almeno all’XI secolo. Un documento del
dicembre 1052 indica la chiesa come san Giovanni Itolano, forse
dal nome del fondatore della chiesa stessa, successivamente denominata
Iterano o Literano come attestato da due contratti di donazione
del 1132. Leggiamo nel primo documento: «Ecclesia sancti Johannis
Iterani (o Literani) constructa intus hac civitate non longe a
pusterla quae dicitur de Butinungo». La pusterla qui menzionata
presso la quale sorgeva la chiesa era quella del Bottonuto e che
si apriva nella cerchia delle antiche mura romane presso il torrente
Seveso. E proprio la vicinanza del corso d’acqua ha suggerito
una più fantasiosa interpretazione del nome della chiesa: S. Giovanni
Isolano forse perché situata come su un’isola fra le acque del
Seveso che scorrevano fino alla metà dell’800 in quella contrada.
Meno nobile l’interpretazione del Torre nella sua opera Il ritratto
di Milano: l’appellativo Isolano deriverebbe dalla vicinanza di
«fogne o chiaviche, le quali all’aperto colme d’acqua corrente,
veggevansi ondeggiare per la città». Questa la interpretazione
più fantasiosa del nostro titolo; secondo altri deriverebbe invece
dalle indulgenze concesse dal papa Leone X come al san Giovanni
in Laterano di Roma.
Abbiamo
notizie dettagliate di questa antica chiesa dagli Atti della visita
pastorale compiuta nel 1569 da san Carlo Borromeo con le seguenti
decisioni: «Si provveda al Battistero e lo si accomodi dalla parte
dell’entrata centrale. Si ricordi di far consacrare l’altare maggiore
e altri altari. Si tolga l’altare di santa Caterina e lo si ricostruisca
a destra d fronte alla cappella della Madonna. Pure si smonti
l’altare di san Rocco. L’altare maggiore si accomodi con il coro
secondo il disegno eseguito da ms. Pelegrino Tibaldi. Si mettano
le vetrate alle finestre». Indicazioni come si vede assai puntuali
quelle di san Carlo per una chiesa che non doveva essere in buone
condizioni. Sempre secondo il già citato Torre, l’antica chiesa
conservava numerose e pregevoli opere d’arte in particolare nella
prima cappella a sinistra una pala d’altare dipinta da Ercole
Procaccini il Giovane raffigurante i santi Carlo, Giuseppe, Bernardo
e Francesco. Questa grande tela è ora collocata nell’abside della
nostra chiesa sulla destra di chi guarda l’altare; sulla sinistra
è posta la pala con S. Filippo Neri, di anonimo del XVII sec.
Queste opere, insieme ad altre suppellettili e arredi attestano
il legame tra la nostra chiesa e quella antichissima di san Giovanni
Itolano o Literano o Isolano o Laterano di cui custodiamo il nome.
Questa
nota è stata redatta utilizzando il volume, Milano Le chiese scomparse,
Civica Biblioteca d’Arte e l’articolo di Cristina Farina, “Arte
Lombarda”, 2007, n.3.
PELLEGRINAGGIO
MARIANO
AL
SANTUARIO
DELLA
MADONNA DEL BOSCO
Sabato
16 maggio 2009
Ore
14.30: Partenza da piazza Bernini
Ore 15.30: S. Rosario e S. Messa al Santuario
Nel
pomeriggio sono previste visite al Traghetto sull’Adda
ideato da Leonardo e all’antica basilica di Agliate
Ore
19.30: Cena a Villa Sacro Cuore di Triuggio
Rientro previsto per le ore 22.00
Costo
25 euro tutto compreso
Per iscrizioni rivolgersi in ufficio parrocchiale
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Nella
Comunità parrocchiale:
hanno
ricevuto il Battesimo
MARCO
SCURATI
CHANVIBOL
MATTIA COLONNELLO
SEBASTIANO ANGELO GARRETTI
CHRISTIAN MATTIA MURILLO
NICOLA ANFOSSI
GIORGIO KENTA PAPARELLI
ALESSIA NOSEDA
SARA NOSEDA
SERENA VITTORIA FISICHELLA
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abbiamo
affidato ai cieli nuovi e alla terra nuova
GAETANO CONSOLI
(a. 86)
WALTER
VINCENZO GRILLO (a. 55)
CESARE
RIMOLDI (a. 82)
LIVIO
ALLIEVI (a. 91)
BRUNO
FALERI
(a. 67)
ADA AUERSPERG (a. 88)
GIORGIO MOTTERLINI (a. 70)
GIULIO CARNEVALI (a. 88)
SIMONA RECAGNI VANOTTI (a. 51)
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