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CHIESA
SANTA E PECCATRICE
Questo
numero del nostro Notiziario accompagna il tempo quaresimale.
Mi sono chiesto: come vivere queste settimane, quale stile suggerisce
alla chiesa e alla nostra comunità questo tempo? Siamo chiamati
ad essere Chiesa che confessa il proprio peccato. Abbiamo vissuto
con amarezza la vicenda del vescovo Williamson che proprio nei
giorni nei quali il papa Benedetto con singolare magnanimità lo
riammetteva nella piena comunione della Chiesa – dopo lo scisma
provocato da mons. Lefèbvre – faceva dichiarazioni farneticanti
che arrivavano a negare l’esistenza delle camere a gas nei campi
di sterminio nazisti… Pochi giorni dopo il Papa si sentiva in
dovere di riconoscere le responsabilità anche dei cristiani nella
tragedia dello sterminio di sei milioni di Ebrei. Confesso d’esser
stato scosso da questo episodio: immediatamente ho invitato la
nostra comunità a stringersi attorno alla comunità ebraica di
Milano, nella persona dell’architetto Stefano Levi Della Torre,
la sera del 4 febbraio. Più avanti, alle pagine 10 e11, diamo
conto di due reazioni critiche e della replica di Levi Della Torre.
Un piccolo episodio che conferma la fatica del dialogo con l’ebraismo.
Lo scorso settembre un gruppo di parrocchiani guidati da don Angelo
ha visitato i luoghi di Lutero, “culla” della “Riforma” della
Chiesa da lui promossa che allora portò alla dolorosa rottura
dell’unità della Chiesa e che il Concilio Vaticano II ha ripreso:
purificazione e rinnovamento sono davvero una necessità per una
chiesa pellegrinante che è segnata e “ferita” dai peccati dei
suoi membri. Ad eccezione di Maria, la Chiesa porta sul suo volto
“macchie e rughe” e i suoi membri devono “debellare il peccato”
e “rinnovarsi continuamente”.
Giustamente noi chiamiamo la chiesa “santa Madre Chiesa”, ma fin
dall’antichità e senza venir meno all’amore e alla fede per questa
Madre, la si è chiamata casta meretrix, una formula che non ha
bisogno di traduzione e che dice la santità e la miseria della
Chiesa, la sua bellezza e il suo squallore, chiamata per questo
a continua conversione.
Tra i tanti gesti dell’intenso pontificato di Giovanni Paolo II
uno mi sembra assolutamente decisivo: la domenica 12 marzo 2000,
prima domenica di Quaresima dell’anno giubilare, nella Basilica
di san Pietro a Roma il Santo Padre, nel corso di una celebrazione
penitenziale, ha riconosciuto le colpe storiche dei figli della
Chiesa e ha chiesto perdono. «Alla fine di questo millennio –
ha detto il Papa – si deve fare un esame di coscienza: dove stiamo,
dove Cristo ci ha portati, dove noi abbiamo deviato dal vangelo».
E nella Bolla di indizione del Giubileo scriveva: «Come successore
di Pietro chiedo che in questo anno di misericordia, la Chiesa
si inginocchi davanti a Dio ed implori il perdono per i peccati
passati e presenti dei suoi figli» (n. 11). Già la Lettera apostolica
Tertio Millennio adveniente del 1994 affermava: «La Chiesa non
può varcare la soglia del nuovo millennio senza spingere i suoi
figli a purificarsi nel pentimento, da errori, infedeltà, incoerenze,
ritardi».
Questo
gesto penitenziale del Papa è stato preceduto da solenni parole
pronunciate nel 1995 nella Repubblica Ceca a proposito delle guerre
di religione: «Oggi io, Papa della Chiesa di Roma, a nome di tutti
i cattolici chiedo perdono dei torti inflitti ai non cattolici
nel corso della storia tribolata di queste genti». Si contano
quasi cento testi nei quali il Papa ha riconosciuto colpe nella
storia della Chiesa e almeno venticinque volte ha detto: «Io chiedo
perdono» o parole analoghe. Nessun altro evento del Grande Giubileo
è stato, come questo, preparato da interventi precisi e numerosi
e da due incontri di studio e di approfondimento storico e teologico:
il Colloquio sull’antigiudaismo e il Simposio sull’Inquisizione.
Sul primo di questi due temi è stato anche pubblicato il 16 marzo
1998 un importante documento della Commissione per i rapporti
religiosi con l’Ebraismo: Noi ricordiamo: riflessione sulla Shoah.
Vi leggiamo parole che preludono all’atto penitenziale del 12
marzo 2000: «Per i cristiani questo grave peso di coscienza di
loro fratelli e sorelle durante l’ultima guerra mondiale deve
essere un richiamo al pentimento. Deploriamo profondamente l’errore
di questi figli e figlie della Chiesa… Questo è un atto di pentimento:
come membri della Chiesa, condividiamo infatti sia i peccati che
i meriti di tutti i suoi figli…».
Il
gesto di Giovanni Paolo II, gesto davvero singolare nella millenaria
storia della Chiesa, non è isolato, conosce alcuni significativi
precedenti. Adriano VI, l’ultimo papa non italiano del Rinascimento,
nel 1523 negli anni aspri della Riforma luterana, aveva tentato
una riforma, consapevole «che anche in questa Santa Sede, fino
ad alcuni anni or sono, sono accadute cose abominevolissime: abusi
delle cose sacre, prevaricazione nei precetti, e tutto infine
volto al male… Noi intendiamo usare ogni diligenza perché sia
emendata anzitutto la Corte romana dalla quale forse tutti questi
mali hanno preso l’avvio…».
In anni a noi vicini Paolo VI il 29 settembre 1963, tre mesi dopo
la sua elezione al sommo pontificato, dichiarava, rivolgendosi
alle confessioni cristiane separate dalla Chiesa cattolica: «Se
alcuna colpa fosse a noi imputabile per tale separazione, noi
ne chiediamo a Dio umilmente perdono e domandiamo venia altresì
ai fratelli che si sentissero da noi offesi…». E quando era arcivescovo
a Milano, il 10 novembre 1957, aprendo la Missione cittadina Montini
così si rivolgeva ai ‘figli lontani’: «Se una voce si potesse
far pervenire a voi, figli lontani, la prima sarebbe quella di
chiedervi amichevolmente perdono. Sì, noi a voi, prima che noi
a Dio… Se non vi abbiamo compreso, e vi abbiamo troppo facilmente
respinti, se non ci siamo curati di voi, se non siamo stati bravi
maestri di spirito e medici delle anime, se non siamo stati capaci
di parlarvi di Dio come si doveva, se vi abbiamo trattato con
l’ironia, con il dileggio, con la polemica, oggi vi chiediamo
perdono».
Il gesto penitenziale di Giovanni Paolo II è in profonda continuità
con l’immagine di Chiesa che il Concilio Vaticano II ha proposto.
Chiesa “peregrinante”, Chiesa che «già sulla terra è adornata
di vera santità anche se imperfetta» (Lumen Gentium 48). Per questo
«la Chiesa che comprende nel suo seno i peccatori, santa insieme
e sempre bisognosa di purificazione, mai tralascia la penitenza
e il suo rinnovamento» (LG 8).
Alla luce di questo gesto del Papa comprendiamo la gloria e la
debolezza della Chiesa. Contempliamo la sua gloria, perché la
luce di Cristo risplende sul volto della Chiesa (LG 1) e la sua
debolezza perché essa «porta la figura fugace di questo mondo
e vive tra le creature» (LG 48). Contro tutte le tendenze fanatiche
che pensano una Chiesa riservata ai puri, ai giusti, la fede cattolica
che non dimentica d’essere il campo evangelico dove crescono insieme
buon grano e zizzania, non ha mai accettato di estromettere dal
proprio grembo materno quanti, con il peccato, hanno smarrito
la grazia battesimale. Già nel 418 il Concilio di Cartagine affermò
che la preghiera con la quale riconosciamo i nostri peccati è
espressione della nostra vera condizione e non solo segno di umiltà.
La Chiesa che prega: «Rimetti a noi i nostri debiti», dice la
sua condizione di Chiesa dei peccatori...
Da
questo gesto del Santo Padre dobbiamo tutti, come singoli e come
comunità, imparare a non lasciare irrisolti i nodi, i conflitti
del presente ma ad affrontarli nella ricerca franca e coraggiosa
della verità e nell’assunzione delle responsabilità. Vogliamo
evitare di edificare soltanto sepolcri ai profeti imparando piuttosto
ad ascoltare con più attenzione le voci profetiche nella Chiesa.
Occorre sempre mostrare rispetto e amore per l’onestà con cui
ogni profeta nella Chiesa parla, quando è veramente mosso dallo
Spirito e sa pagare di persona per quanto dice. Il coraggio con
cui il Papa ci ha invitati a volgerci al passato deve diventare
stile di evangelica franchezza nel valutare il nostro presente:
«Riconoscere i cedimenti di ieri è atto di lealtà e di coraggio,
che ci aiuta a rafforzare la nostra fede, rendendoci avvertiti
e pronti ad affrontare le tentazioni e le difficoltà di oggi»
(Tertio millennio adveniente 33).
Questo
gesto penitenziale ha una decisiva intenzionalità ecumenica. «La
Chiesa cattolica deve entrare in quello che si potrebbe chiamare
“dialogo della conversione”, nel quale è posto il fondamento interiore
del dialogo ecumenico. In tale dialogo, che si compie davanti
a Dio, ciascuno deve ricercare i propri torti, confessare le sue
colpe, e rimettere se stesso nelle mani di colui che è l’Intercessore
presso il Padre, Gesù Cristo» (Ut unum sint 82).
Infine
questo gesto penitenziale, scrive ancora il Papa, «non danneggerà
in alcun modo il prestigio morale della Chiesa, che anzi ne uscirà
rafforzato per la testimonianza di lealtà e di coraggio nel riconoscere
gli errori commessi da uomini suoi e, in un certo senso, in nome
suo… Solo il riconoscimento coraggioso delle colpe e anche delle
omissioni, come pure il generoso proposito di rimediarvi con l’aiuto
di Dio, possono dare efficace impulso alla nuova evangelizzazione
e rendere più facile il cammino verso l’unità» (Riflessioni sul
Grande Giubileo dell’anno 2000, Promemoria del 1994).
don
Giuseppe
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La
fede della "straniera"
omelia
di don Giuseppe nella quinta domenica dopo l’Epifania
domenica 8 febbraio 2009 (Is 60, 13-14; Rom 9, 21-26; Mt 15, 21-28)
Rimandiamo
la lettura dell'omelia su questo sito alla voce "omelie"
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Dopo
una serata di dialogo con l'ebraismo
La
conversazione con l’architetto Stefano Levi della Torre, tenuta
nel nostro oratorio il 4 febbraio, ha provocato due reazioni critiche
nei confronti del relatore. Ecco la sua replica.
Ringrazio Don Giuseppe per avermi proposto di rispondere alle
lettere di critica alla conferenza da me tenuta in S. Giovanni
in Laterano.
La
mia tesi era che con il Concilio Vaticano II, da Giovanni XXIII
a Paolo VI e a Giovanni Paolo II, la Chiesa Cattolica aveva intrapreso
nei confronti degli ebrei una svolta profonda, di riconoscimento
e apertura. Dalla Dichiarazione Nostra aetate, ai “Sussidi” del
1985 fino alla visita di Papa Wojtyla alla Sinagoga di Roma nel
1986 e a Gerusalemme nel 2000, era stato un susseguirsi di atti
coerentemente positivi. Ho citato ampiamente le modifiche portate
in questo senso alla preghiera del Venerdì Santo da Papa Giovanni
e soprattutto da Paolo VI come segno significativo di un vero
cambiamento, accolto con entusiasmo dal mondo ebraico.
Questa
tendenza positiva ha cominciato a vacillare, a mio parere col
grande Giubileo del 2000, e ho citato in proposito la beatificazione
in quella sede di Pio IX (in parallelo e, a mio parere in contrasto,
con la beatificazione di Papa Giovanni), e di Pio IX ho citato
l’attacco alla libertà di coscienza e alla libertà di religione
altrui, nonché il suo attribuire agli ebrei l’appellativo di “cani”.
Il fatto che le sue posizioni siano state espresse un secolo e
mezzo fa non consente di rifugiarsi nel relativismo storico, cioè
dietro le “realtà oggettive delle varie epoche”, come scrive il
sig. Salemi: Pio IX è stato beatificato, cioè indicato a modello
dei cattolici, oggi, nell’anno 2000.
Ho
poi sostenuto che, con papa Benedetto XVI, le aperture del Concilio
hanno cominciato a chiudersi, anche verso gli ebrei. Ho parlato
dei punti critici: le cose dette dall’attuale Papa ad Auschwitz,
i silenzi di Pio XII nei confronti del nazismo, il ritorno indietro
sulla preghiera del Venerdì Santo con l’auspicio della conversione
degli ebrei, fino all’accoglimento dei seguaci di Lefebvre, negatori
del Concilio, e sospettabili di anti-giudaismo tradizionale. Tutti
fatti che hanno bloccato il dialogo ebraico-cristiano avviato
dopo il Vaticano II.
Non
ho dunque parlato a senso unico: ho distinto il positivo dal negativo.
A mio parere, l’attuale papato segna un’involuzione rispetto alle
tendenze positive avviate dal Concilio.
Il
sig. Salemi parla di “persecuzioni subite da parte degli ebrei
da Vescovi riabilitati e da capi di Stato (Iran e Paesi Arabi)”
e io lo prego di fornirmene documentazione. Sempre disposto a
discuterne. Ma il sig. Salemi dice poi qualcosa di sorprendente:
che durante la persecuzione antisemita gli ebrei italiani “sono
stati tutti protetti e/o salvati”. Tutti? A parte i circa 8.000
– su 37.000 – sterminati dai nazifascisti. Furono protetti con
“tanto rischio”, dice il sig. Salemi. Ma aggiunge: “Quasi nessuno
allora (autorità comprese) aveva applicato le leggi razziali”.
E allora dov’era il rischio? Invece il rischio c’era, e quanti
di noi furono salvati conservano profonda gratitudine verso chi
volle correre quel rischio anche mortale.
La
sig.ra Colombo mi accusa di “rifiuto della mano tesa”. Io ho risposto
alla mano tesa, a partire dal Vaticano II, partecipando attivamente
al dialogo ebraico-cristiano in molte parti d’Italia e alla Cattedra
del Cardinal Martini. Non rifiuto la “mano tesa”, ma la mano che
si ritira, che cambia direzione, come sta avvenendo. Ma la sig.ra
Colombo giunge a questa osservazione: “Finché ci siano esponenti
di quest’impronta e mentalità anche nel Medio Oriente, c’è da
temere che la guerra in Israele non possa finire, purtroppo”.
A parte la confusione tra un italiano ebreo e un israeliano, il
mio sforzo di giudicare i fatti mi ha sempre portato a criticare
senza mezzi termini le politiche aggressive dei governi israeliani
e l’oppressione dei palestinesi nei territori occupati e ho sempre
sostenuto la prospettiva dei “due popoli, due Stati”. Ritengo
anzi coerente da parte mia attenermi agli stessi principi sia
quando parlo del massacro di Gaza sia quando parlo della svolta
reazionaria dell’attuale vertice della Chiesa. La sig.ra Colombo
e il sig. Salemi avrebbero preferito un più disteso esercizio
di buoni sentimenti nel rimpianto condiviso dell’“Olocausto”,
avendo come facile bersaglio il “negazionismo” di Williamson.
Io ho preferito parlare dei fatti che hanno portato al caso Williamson.
Aspetto di essere smentito sui fatti.
I
buoni sentimenti che nascondono i fatti non sono buoni sentimenti.
Stefano
Levi Della Torre
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LA CRISI ECONOMICA CI INTERPELLA
Il 19
febbraio scorso abbiamo invitato il prof. Marco Vitale, illustre
economista, per un incontro sulle cause della crisi economica
mondiale. Riportiamo alcuni stralci del suo intervento
L’attuale crisi presenta le seguenti caratteristiche fondamentali:
È
una crisi endogena, tutta interna al sistema e, all’inizio tutta
interna al sistema bancario. Non ci sono cause esterne scatenanti
come guerre, attacchi terroristici come quello delle due torri,
inflazione selvaggia, terremoti, maremoti od altro. Si tratta
di puro e semplice mismanagement bancario, un’epidemia che ha
colpito la maggior parte della congrega dei dirigenti bancari
dei grandi gruppi, in modo persino difficile da comprendere come
un tale mismanagement abbia potuto succedere in questo modo e
in queste dimensioni.
È
una crisi globale. Non c’è mai stata una crisi così globale come
questa, e ciò è comprensibile perché non c’è mai stata un’economia
globale come la nostra.
È
una crisi di proporzioni gigantesche. Di seguito darò qualche
numero per illustrare questo punto. L’ammontare delle perdite
bancarie, a livello mondiale è tanto elevato da giustificare la
domanda: ma come può essere successo? I prestiti subprime USA
non sono sufficienti per spiegare l’ammontare di queste perdite.
La verità è che le perdite da insolvenze di subprime sono state
esaltate e moltiplicate molte volte passando da un intermediario
finanziario all’altro, da un investitore all’altro. Ed ogni volta
che, impacchettati in un modo o nell’altro quasi sempre incomprensibile,
passavano di mano in mano venivano effettuati prelievi a favore
di questo o di quell’intermediario, che si chiamano commissioni,
partecipazioni od altro, ma che, nell’insieme, hanno rappresentato
un grande colossale prelievo a favore della classe dei banchieri.
Così è stato possibile che tra il 2006 e il 2007 gli stipendi
dei primi 10 (dicasi, dieci!) banchieri USA sono stati pari all’intero
ammontare del piano italiano per la rottamazione delle auto (2
miliardi di euro). Il corrispettivo, a fronte di questo gigantesco
prelievo, è stata la distruzione del sistema bancario. Perché
di questo, e non di altro, parliamo. Gli economisti accademici
non amano parlare di questi problemi: hanno paura di sporcarsi
le nobili mani con questi piccoli argomenti triviali. Ed invece
proprio qui si annida uno dei problemi centrali, come già sostengo
da molti anni. È molto preoccupante che Obama abbia scelto tra
i suoi principali collaboratori economici alcuni dei principali
rappresentanti della casta dei commercianti di denaro, responsabile
prima del disastro.
Se
queste sono le caratteristiche fondamentali di questa crisi è
più che giustificata la domanda centrale: accertato che la crisi
tocca tutta l’economia sia quella finanziaria sia quella reale
e che è globale, quali sono i rischi che diventi una vera e propria
deflazione (= diminuzione del valore della produzione mondiale)?
Come illustra l’economista Pierluigi Ciocca in teoria economica
si distingue tra “deflazione buona” e “deflazione cattiva”. La
prima è quando i prezzi calano ma insieme e come effetto di un
aumento della produzione e cioè come effetto dell’aumento della
produttività (ciò si è verificato ad esempio, sempre su dati mondiali,
dal 1875 al 1895). La deflazione cattiva si verifica quando la
diminuzione dei prezzi coincide con una diminuzione della produzione.
Questo fenomeno non è molto frequente. Si verificò nel 1833 (-9%),
nel 1848 (-8%), nel 1874 (-4%), nella prima guerra mondiale del
‘900 (-8%), nella seconda guerra mondiale (-12%). II primato spetta
al 1929-33 quando i prezzi all’ingrosso mondiali calarono del
40% e la produzione del 15% (30% in USA, 15% in America Latina,
9% in Europa, 5% in Italia) e il commercio mondiale scemò di un
quarto in quantità e di due terzi in valore. Dal 1950 al 2007
il PIL mondiale non è mai calato. Per il 2008 la crescita, in
forte rallentamento, resta pur sempre del 3,4%.
Ma
ci sarà deflazione cattiva dal 2009 in avanti? Questa è la domanda
centrale oggi. Le stime ufficiali lo escludono, ma sono stime
assai incerte. Al centro del tavolo c’è una grande incognita.
Quante sono realmente le perdite bancarie? Le migliori previsioni
parlano oggi di 2.200 miliardi di dollari. Ma sono le stesse fonti
che, inizialmente, parlavano di 500 miliardi, poi di 1.000 miliardi
(e sembrava uno sproposito). Oggi sarà affidabile la stima di
2.200 miliardi? Ma se le perdite fossero più alte? Se fossero,
come qualcuno esterno alle fonti ufficiali sussurra, superiori
ai 10.000 miliardi di dollari? Il guaio in questo caso sarebbe
molto serio. Nessuno ha per ora una risposta certa a questa domanda.
Per questo tutte le persone responsabili, trattengono il fiato
e aspettano che questa incognita centrale si sveli.
Molti
ripropongono, con ansia, la domanda: quando ne usciremo? Qualcuno
parla ancora di mesi. Qualcuno parla del 2010. Io dico che nessuno
può, con serietà, rispondere neanche a questa domanda. Posso solo
dirvi le cose che devono succedere perché si possa verificare
qualche forma di ripresa.
Nessuna
ripresa seria e duratura sarà possibile:
–
se non si determinano con chiarezza ed affidabilità l’ammontare
dei titoli tossici e delle presunte perdite;
–
se non si crea un nuovo quadro di riferimento internazionale.
Tutti gli equilibri (che chiamammo equilibrio di squilibri) si
sono rotti. Vanno ricreati dei nuovi equilibri. Ed innanzi tutto
si tratta di stabilire un nuovo patto tra USA e Cina (paese detentore
delle maggiori riserve mondiali). Ecco perché incominciare, come
ha fatto il nuovo ministro del tesoro USA, Geithner, con un attacco
alla Cina, non sembra cosa particolarmente intelligente ma piuttosto
nuova manifestazione di bullismo americano;
–
se non si smette di affrontare la crisi con concetti, metodi e
rimedi congiunturali. Se non si capisce che siamo di fronte a
una svolta strutturale fondamentale e non a una crisi congiunturale;
–
se non cambiano alcune concezioni di fondo dell’economia e del
management. La prima cosa da abbandonare è l’utilizzo PIL come
praticamente unico parametro di buona economia; la seconda è di
abbandonare il principio affermatesi negli ultimi venti anni che
il management deve solo creare valore per gli azionisti e ritornare,
invece, all’antico principio che il management deve creare valore
per l’impresa e quindi per tutti gli interessati alla stessa;
la terza è di riportare i poteri neofeudali del top management
e delle grandi banche alla ragione democratica (è in questa prospettiva
che mi preoccupa molto che il presidente Obama si sia circondato
di esponenti del neofeudalesimo bancario); la quarta è di cancellare
la memoria dell’ultracapitalismo d’assalto degli ultimi venti
anni di matrice americana e di riconoscere esplicitamente che
l’unica concezione economica sopravvissuta con onore allo tsunami
è l’economia sociale di mercato di matrice tedesca ed europea;
–
se non torniamo a lavorare insieme, soprattutto in Europa, come
quando abbiamo insieme costruito la nuova Europa dopo il disastro
bellico, rinunciando ad affrontare la crisi in ordine sparso sia
tra nazioni che tra settori produttivi; vincente e necessario
il progetto di fare una grande emissione di obbligazioni europee;
–
se non sconfiggiamo il partito degli agevolisti che l’alimentano
l’illusione che i governi abbiano la bacchetta magica per risolvere
la crisi a colpi di agevolazioni a questo o a quel settore;
–
se non ci convinciamo che gli scarsi mezzi dei governi non devono
andare a sostenere i produttori ma i salari, i disoccupati, i
precari, i piccoli operatori, tutte le fasce più deboli del tessuto
sociale;
–
se si affronta la crisi con la falsità. E la falsità più grande
è di far finta che i tassi nominali degli interessi siano prossimi
allo zero, mentre il credito necessariamente scarseggia (le gigantesche
perdite bancarie sono risorse distrutte e che non esistono più),
e quando lo si trova è (e deve essere) sempre più caro. La politica
dei tassi nominali prossimi allo zero è una nuova truffa, dannosissima;
–
se non si capisce che tutto quello che stiamo facendo sta creando
le basi per una nuova inflazione storica.
Le
cose da fare dunque per uscire dalla crisi non sono misteriose.
Sono però un po’ difficili da fare. Giudicate voi il tempo necessario
perché tutto questo si realizzi. A me sembra che la questione
sarà lunghetta.
Marco
Vitale
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CONCERTO
DI PASQUA
martedì
31 marzo 2009 ore 21.00 in Chiesa
LA
PASSIONE
tra
testo e musica
Le
Suites à violoncello solo di Bach
dialogano
con testi e immagini sulla Passione
con
il violoncellista Silvio Righini
a cura di don Paolo
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Nella
Comunità parrocchiale:
hanno
ricevuto il Battesimo
TOMMASO
OSTONI
TOMMASO CARLO BARTOLI
MATILDE ZEMA
CHIARA MONDO
MATTIA FALCONI
GRETA DE MARZO
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abbiamo
affidato ai cieli nuovi e alla terra nuova
GIOVANNI
RAIMONDO GARGANTINI (a. 72)
MARIA
GRAZIA CIOMPI (a. 84)
GIUSEPPINA
DE LAURENTIS ved. LESSIO (a. 74)
PAOLA
TANZINI ved. CORBETTA (a. 91)
MARIA
GARINI ved. LACCHINI (a. 85)
MICHELE
COSIMO DAMIANO TEMPESTA (a. 60)
REGINA
MILANI ved. CELOTTI (a. 88)
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