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Pensieri
lungo i binari di un tram
Sto
attendendo, lungo i binari, l’11. È sera fonda. L’aria della città
ormai ha il colore indistinto, immobile, del buio. Si allunga
l’attesa. Per noi uomini e donne, oggi consumati dalla fretta,
i tram sono sempre in impenitente ritardo.
Gli
occhi a inseguire, quasi fuori delle orbite, rotaie che si perdono
lontano. Nel nulla. Sete di una piccola luce lontana che abbia
la parvenza di un fanale di tram che buchi la notte. E sia avvistamento.
Altre luci si accendono e spengono. Accendono e spengono l’il-lusione.
Non sono luci in rotaia, inseguono altre direzioni. A dilatare
le pupille degli occhi è questa mia attesa.
Attendo
un tram. E nella lunga attesa mi sorprendo a debordare. Ti confesso,
non so darti ragione di questo improvviso debordare religioso
dei pensieri. Come se fosse arrivata un’onda estrema, a spingere
al largo l’immagine dell’attesa, a sospingerla a un senso ulteriore.
Forse è questo attenuarsi di voci, di rumori, di immagini, di
insegne a sospingere oltre. A sospingere dentro.
L’anima
mia beve
silenzio.
Pulsa la luce leggera
come lampada fioca
alla punta estrema
del cuore.
Mi
sorprendo a pensare che, uomini e donne, siamo tutti nella vita
lungo rotaie, inghiottite dal buio. In attesa di un baluginare
lontano, gli occhi sgranati a fendere il buio, in attesa. In attesa
di un amore, di un ritorno. In attesa, oggi te ne parlo, del ritorno
del Signore.
Si
è accesa lontana una luce. Sarà lui? Anche il Battista, che ne
sentiva parlare, dalla notte del carcere mandò a chiedere: “Sei
tu il Messia o dobbiamo attenderne un altro?”. E io sono qui nella
notte ad attendere. Che ritorni.
Ti
dirò che da un lato porto dolore che se ne sia andato. Mi sorprendo
spesso a sognare il suo volto: l’aprirsi dolce del suo viso al-l’abbraccio
dei bimbi, l’infiammarsi del viso ai tavoli rovesciati per mercato
di tempio, l’intenerirsi del viso alle mani di donna che andavano
profumando il suo corpo, il piangere trattenuto per madre vestita
di lutto sotto la croce. Porto dolore che se ne sia andato.
Ma
porto anche gratitudine e fierezza. Non è rimasto a spiare la
nostra libertà. Lui, giudice severo di coloro che si sentono autorizzati
a spiare la libertà dei figli di Dio, giudice severo di tutti
coloro che si sono fatti guardiani e gendarmi dei fratelli e delle
sorelle, delle comunità. Tradendo l’immagine.
Se
n’è andato - un giorno raccontò la parabola - lasciando al servo
la sua casa. Affidata all’intelligenza e alla custodia. Fino al
ritorno. Come uno che ci crede. Una terra affidata, una casa affidata,
sorelle e fratelli affidati. Tutto affidato. Ritornerà.
Ora più non so se, questa sera, a parlarmi dell’attesa del suo
ritorno sia il baluginare lontano del fanale di un tram che tarda
a venire. O se a suggerirmelo sia questo tempo di avvento alle
porte, tempo che abbiamo tradito, evocandolo come attesa di una
nascita che è già stata e non come attesa della venuta del Figlio
dell’uomo alla fine dei giorni.
“Nell’attesa della tua venuta” andiamo ripetendo ogni domenica,
quando ci diamo appuntamento per la cena del Signore. E penso
ai giorni lontani in cui si costruivano chiese rivolte ad oriente,
perché da oriente sarebbe ritornato il Signore. Oggi che le chiese
prendono prevalentemente l’orientamento del piano regolatore,
oggi che le chiese non sono più orientate, dovremmo essere noi
rivolti, con gli occhi e la vita, a oriente. In attesa del suo
ritorno.
Mi
chiedo dell’attesa e dell’assenza di attesa. Forse non attendiamo
perché non ci sfiora innamoramento. Siamo occupati da altro. Mi
dico: non puoi attendere se non uno che ti ha occupato il cuore.
Per una sorta di innamoramento. Se ti ha sfiorato innamoramento,
allora sai che cos’è trattenere il fiato in ascolto del fruscio
dei passi, sai che cos’è lo spiare dalla finestra, sai che cos’è
il trasalire e il battere del cuore. Il desiderio del volto. Non
c’è attesa del ritorno se non c’è innamoramento. Se c’è, ti capiterà
di mormorargli nel segreto: “Ho ascoltato quaggiù, nei miei giorni,
la tua voce. Ora mostrami il tuo volto. Il tuo volto, Signore,
io cerco. Non nascondermi il tuo volto. Ora, lungo le rotaie che
si perdono nel nulla, lungo le rotaie della vita o dalla soglia
della casa che mi hai affidato, ti attendo. Vedano i miei occhi
stanchi spuntare per me la tua luce”.
Costruirò
nel sogno
una casa ad oriente
e la porta socchiusa
a spiare
il silenzio dei passi
alla luce del tuo volto.
Oggi
sentiamo parlare di religione, si vuol difendere la religione.
Ma gli occhi sono freddi, di ghiaccio, come di chi dice: Signore,
ma non attende. Si danno definizioni, si proclamano regole, ma
non c’è aria di innamoramento. Come se fosse penetrato l’inverno
nelle chiese. Si urla, ma non è voce di innamorati. Né di Gesù
né del vangelo. Militanti, ma non innamorati.
Succedeva
anche a tempi di Gesù. Era la festa, dice Giovanni, della dedicazione
del tempio: la festa la si celebrava nel mese di dicembre. Ma
- che strano! - Giovanni precisa “era d’inverno”. Che la precisazione
alluda a qualcosa? Che Giovanni voglia dirci che l’inverno era
penetrato nel tempio? Era come se fosse inverno nel tempio. Qualcuno
forse ricorda che nel “Cantico dei Cantici” è scritto che, quando
arriva l’amore, l’inverno se ne va. È scritto:
“Ecco, l’inverno è passato,
è cessata la pioggia,
se n’è andata,
i fiori sono apparsi nei campi,
il tempo del canto è tornato
e la voce della tortora ancora si fa sentire
nelle nostre campagne.
Il fico ha messo fuori i primi frutti
e le viti spandono fragranza” (Ct 2, 11-13).
Quei lontani frequentatori del tempio si illudevano che fede fosse
avere qualche pensiero su Dio. E loro avevano quelli giusti! Gli
occhi erano di ghiaccio.
In una sua omelia su Maria di Magdala don Germano Pattaro rifletteva
sul fondamento della fede. Argomento serio in tempi di gravi fraintendimenti.
Diceva: “Il fondamento della fede più ancora che sapere qualcosa
su Cristo (fosse pure che è risorto) è avere il cuore occupato
da lui. Se non si ha il cuore occupato da lui, ma si hanno pensieri
su di lui, non serve a niente (…). Noi invece abbiamo la mente
occupata dai pensieri su Dio - magari sappiamo tutte le cose che
si devono fare, sappiamo il catechismo a memoria, un po’ più un
po’ meno - ma non abbiamo il cuore occupato da lui”.
Se
il cuore è occupato lo attendiamo. Lo attendiamo resistendo alla
bruttezza e alla mediocrità, lottando contro l’ingiustizia e la
menzogna, contro la dissacrazione del volto. Anche in assenza
di risultati. “Verrà” ti dice il cuore. E quando verrà, sarà chiaro
dove stava la bellezza della vita. Se nell’egoismo o nell’amore.
Verrà. E sarà naufragio per la menzogna. La grande Menzogna. Splenderà
la verità di coloro che sulla terra anelarono a fare le opere
belle, le opere che faceva lui, opere che miravano a restituire
la dignità, la libertà, la vita piena ad ogni persona. Lottando
contro ogni forma di asservimento, interiore e esteriore. Brillerà
la tenerezza, dopo stagioni di dominio e di arroganze. “Verrà”
dice il cuore. E punti gli occhi con desiderio.
Verrà
e sarà la fine dell’inverno che fa smunte le erbe dei nostri cenacoli
chiusi, case della presunzione, vuoto di tenerezza.
E
venendo da cenacoli chiusi
in prati d’erbe
smunte
senza refoli di vento
l’avventura dei tuoi passi
su erbe bagnate
colorate d’ignoto
da un oltre che segna
il tuo passaggio di silenzio.
Andavi per pareti di vento.
E io a inseguire
per acuto di nostalgia
il tuo
profumo di vento.
Verrà.
E avrà occhi che accarezzano sabbie e stanchezze. Avrà - io ne
avrò bisogno - gli occhi intensi della misericordia. Né potrei
attendere altro. Un giudice spietato, non lo attendi nella notte.
Lo temi. Non sarebbe buona notizia, evangelo. E chi di noi potrebbe
resistergli? Io so per certo che lui non muta. Avrà ancora gli
occhi che accarezzavano sabbie e stanchezze. Avrà per me - nuda
grazia! - gli occhi della misericordia.
E
possa
alfine riposare anch’io
così come sono,
ladrone di sinistra
alle braccia della tua croce,
estremo rifugio
dimora
a un condannato a morte.
E ancora concedimi
per grazia
di riposare stanco
alla porta socchiusa
del regno.
In
un’ora o in un’altra
- io lo sento -
tu uscirai.
A
scuotermi uno sferragliare, sempre più vicino, di tram. La luce
del fanale, ora a pochi passi, a vista anche di un cieco come
me. Viene meno un’attesa, ma arde nel cuore sete di altra luce,
la tua, che buchi la notte di altre rotaie. Non so quando. Ma
tu verrai.
don
Angelo
le
poesie dell’articolo sono tratte da
ANGELO CASATI, Nel silenzio delle cose
Edizioni Qiqaion, Bose 2007
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SI
INDUGIA O SI ENTRA DI PREPOTENZA?
omelia
di don Angelo nella trentesima domenica del tempo ordinario
domenica 28 ottobre 2007 (Sir 35, 2-14.16-18; 2Tm 4, 6-8.16-18;
Lc 18, 9-14)
Si
parla di preghiera nelle letture di questa domenica. Ma, se ben
osservate, si parla di vita. Da come preghi si svela la vita,
si svela chi sei. Da come prega il fariseo capisci che tipo di
uomo è. E da come prega il pubblicano capisci che tipo di uomo
è. Gesù è un finissimo osservatore. La parabola nasce da uno sguardo,
lo sguardo di Gesù. Che cosa aveva osservato? Che “alcuni erano
persuasi in se stessi di essere giusti e disprezzavano gli altri”.
E racconta la parabola.
E
la parabola inizia con un verbo: “Due uomini salirono al tempio
per pregare”. Salirono. Il verbo salire. Ma c’è salire e salire.
C’è
il salire presuntuoso. Il fariseo sale per la conquista, è come
se si impossessasse di Dio, della verità, della casa di Dio. Celebra
se stesso, da quel luogo alto a cui è salito. Alla fine ti accorgi
che la montagna è lui. È salito a se stesso. Non c’è più Dio se
non nelle parole. “Pregava tra sé”, dice la nostra traduzione,
ma il testo greco scrive pròs eautòn: “pregava rivolto
a sé”, si pregava addosso. E Dio? “Dio” scrive Giancarlo Bruni
“spettatore muto di quel suo compiaciuto soliloquio”. È arrivato
in alto. In alto è lui. È arrivato - pensate che conquista, che
viaggio! - è arrivato a se stesso, e nemmeno dentro di sé, fuori:
“io… io… io…” ripete, ossessivamente, “io”.
Il
pubblicano invece, l’umile, al contrario, sale… e non arriva mai.
Al volto di Dio giunge solo la sua preghiera, perché è scritto:
“La preghiera dell’umile penetra le nubi”. Le nostre, le nostre
preghiere, se celebriamo noi stessi, rimangono fuori, fuori delle
nubi. Al volto di Dio giunge solo la preghiera di chi si sente
lontano, costituzionalmente lontano. È scritto: “Dal profondo”
- dal profondo! - “grido a te, o Signore”.
E
dal profondo della lontananza - “stando lontano” è scritto - viene
questo frammento, questa briciola di preghiera: “O Dio abbi pietà
di me peccatore”. Ebbene, quando uno nasconde umilmente il suo
volto - “non osava neppure alzare gli occhi al cielo” - quando
uno nasconde umile il suo volto, Dio gli mostra il suo. Come?
Giustificandolo: “Vi dico: discese a casa sua giustificato”. Non
si sente giusto, come il fariseo. Si sente “fatto giusto”, fatto
giusto non dalla celebrazione presuntuosa delle sue opere, ma
fatto giusto da un altro, da Dio, ricolmato dalla misericordia.
Solo chi si sente lontano, solo chi patisce la distanza, sfiora
il mistero di Dio. Solo chi indugia a distanza: “fermatosi a distanza”
è scritto. Se non ci appartiene questo “indugiare a distanza”
la nostra non è preghiera, ma, vorrei aggiungere, la nostra non
è vita.
Siamo
ancora educati a questo indugiare? Me lo chiedo. Perché mi sembra
di cogliere oggi segni diversi. Oggi, si indugia? O si entra di
prepotenza? Nelle case, negli uffici, nella verità, nell’altro,
nella vita? Di prepotenza si entra. E non in punta di piedi.
Questo
entrare nelle cose e nella vita come se tutto ci appartenesse
e di tutto avessimo diritto. Come se tutto ci fosse dovuto, come
se tutto fosse definito: la verità su tutto l’abbiamo noi! Questo
entrare nella vita da conquistatori e da padroni, mi fa paura.
È la rovina delle fede. E del mondo.
Rovina
anche della preghiera, e magari nemmeno ce ne accorgiamo. Il fariseo
nemmeno si accorge di non aver pregato, pensava tra sé di aver
fatto una bellissima preghiera. Perfetta!
Se
stiamo alla parabola, non è dunque decisivo il luogo per dire
se è avvenuta una preghiera o no. Non è decisivo il tempio. Non
so se vi siete mai soffermati a pensare che, dopo tutto, non si
leggono nei vangeli momenti in cui Gesù prega nel tempio. Si raccontano
momenti in cui Gesù prega fuori, questi sì. E l’invito, il suo,
era a pregare nel segreto, a entrare nella camera, a chiudere
la porta e a pregare Dio nel segreto. E tanto meno è decisivo,
per Gesù, il posto in cui si è nel tempio. Anzi nella parabola
è criticata la preghiera dai primi posti.
Ma
non è decisivo neppure dire “Dio”. Anche il fariseo dice “Dio”.
Ma celebra se stesso. E Gesù dirà: “Non chi dice: Signore, Signore,
entrerà”.
Non
è decisiva neppure la lunghezza della preghiera. Molto più lunga
quella del fariseo, un soffio quella del pubblicano. Gesù dirà
anche: “Quando pregate, non moltiplicate parole, Dio sa ciò di
cui avete bisogno”.
È invece la preghiera dell’ultimo posto, che conquista Dio, conquista
il cuore compassionevole di Dio. Per questo, capitemi bene, sono
legittimi e anche belli i richiami dei preti a non fermarsi durante
le celebrazioni in fondo alle nostre chiese. Ma attenzione a non
giudicare troppo disinvoltamente. Chi legge il cuore non sei tu.
E non ci succeda, come era successo al fariseo, di condannare
colui che è giustificato da Dio.
Perché
ci può essere un indugiare sulla soglia, rapiti dal mistero dell’altro,
l’altro con la a maiuscola o con la a minuscola. Rapiti dal mistero
dell’altro e dalla consapevolezza della propria indegnità, della
propria distanza. Allora Dio scenderà. Scenderà a colmarla. Per
grazia. Per nuda grazia.
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Nel
grembo di un monastero, l’ottavo sacramento
don
Luigi Pozzoli e don Angelo Casati festeggiati a Bose
“Oggi
a Bose festeggiamo l’amicizia, festeggiamo don Luigi e don Angelo,
da loro vorremmo sentire, in piena libertà, cosa, nei loro tanti
anni di pastori, più gli ha bruciato nel cuore...”
La
voce profonda e affettuosa di Enzo Bianchi raggiunge chiara e
forte ogni angolo della chiesa affollata.
Siamo
davvero arrivati in tanti, e da città diverse, e i volti dicono
la gioia di ritrovarsi, quasi famiglia, intorno a coloro con cui
condividiamo orizzonti e stili di fede, e a cui siamo debitori
infinitamente grati di un’immagine di Dio e di chiesa che con
lievità e sottovoce, ma anche con parresìa e coraggio rimanda
alla Parola che salva e dà vita. Don Luigi racconta, anche attraverso
lettura di brani dei suoi libri L’abito rosso, purtroppo
ormai introvabile, e Pensieri vagabondi, momenti forti
della sua vita: e sorridiamo ascoltando che “Dio l’ha preso per
la gola…” dato che la prima attrazione per il seminario gli è
nata quando, bambino, intravede un giorno nel cortile del piccolo
Seminario del suo paese i ragazzini affollarsi, per far merenda,
intorno a grandi pagnotte distribuite insieme ad una tavoletta
di cioccolata ed un quadratino di marmellata cotogna. “Credetemi,
allora tutto era colpa, peccato, proibizione e Dio un giudice
severo, inflessibile. Grazie a grandi maestri nella fede e grandi
amici - come padre Turoldo, padre Balducci, don Michele Do - grazie
al Concilio, che è stata la grande svolta, ho scoperto pian piano
una visione nuova, aperta e libera, e della Chiesa e del volto
stesso di Dio: un Dio della tenerezza e della misericordia, un
Dio che ama e libera”. E grazie anche agli incontri con tante
persone semplici eppure “straordinariamente ricche, di quella
sensibilità umana e di quella intelligenza del cuore che costituiscono
la vera grandezza di una persona”.
“Semm
chi”
Ama
il dialetto, don Luigi, e le espressioni popolari ricche di saggezza.
“Siamo qui” concentra gli elaborati discorsi di filosofi e di
mistici per dire la nostra radicale povertà, quel hic et nunc
dell’esserci, che è anche una confessione, un appello. “Vedi,
siamo qui. In questo punto di un cammino che tu conosci. Non lasciarci
soli abbandonati a noi stessi. Non lasciarci smarriti in questo
punto dello spazio e del tempo… Donaci la certezza che questo
punto è abitato dalla tua presenza”. Nell’intermezzo musicale
che segue, ospitiamo nel cuore per custodirli i pensieri, le immagini,
i volti poco prima evocati. E quando don Angelo inizia il suo,
di racconto, è come se un controcanto del tutto in armonia, seppure
su altri registri, riprendesse temi e toni già risuonati tra le
alte campate della chiesa. Ci parla di un’amicizia iniziata in
un tempo lontano, 1971, quando tutto a Bose era… poco: pochi i
fratelli, poche le mura riparate alla meglio, poco o nullo il
consenso delle gerarchie. Ma arrivando alla porta leggevi “Suona,
qualcuno ti accoglierà chiunque tu sia”. L’ospitalità, l’accoglienza,
cifra di Bose, cifra dell’essere chiesa. E ad ospitare è anzitutto
lo sguardo, prima ancora che un luogo. “Mi è capitato spesso
di chiedermi quale cura abbiamo nella nostra vita, oltre che nella
nostra comunità, di questa dimensione che mi sembra epifania del
vangelo: l’accoglienza.” Ci racconta, don Angelo, del suo
sentire la dismisura dell’amore di Dio rispetto alla piccolezza
del proprio essere “granello di senapa”di fronte all’albero, e
del suo cercare la terra della piccolezza, “terra emarginata,
creatura in esilio”, terra che Gesù prediligeva, mentre noi
“contagiati dal mito del successo, dell’esibizione, del colossale,
scaviamo, a perdita di tempo, in altri campi alla ricerca del
tesoro, con il risultato di estrarre fantasmi, volti truccati,
maschere d’umanità, storie senza i colori dell’anima”. E poi
indugia con quella lievità e dolcezza che tanto raggiunge chi
lo ascolta, sui suoi temi preferiti: la passione per i volti,
lettera di Dio, che ti incantano perché ti parlano con il sorriso,
il pianto, la domanda, la confidenza e sempre ti rimandano al
mistero che custodiscono, eco del mistero di Colui di cui sono
immagine. Ed il desiderio di una chiesa capace di sbilanciarsi.
“Negli anni del Concilio, in cui conobbi Enzo, accanto a lui conobbi
l’imprevedibilità dello Spirito. Ma in questi anni purtroppo stiamo
assistendo a questo barricarsi della chiesa al suo interno, almeno
nella sua immagine prevalente. Gesù era sbilanciato verso l’esterno.
Leggeva segni dello Spirito e s’incantava per le vie imprevedibili
dello Spirito”. Sbilanciarsi: e mi par di vedere navigare
nei cieli le figurine dei quadri di Chagall, gli sposi o il violinista
o gli animali, sbilenchi, protesi in avanti, in movimento, in
viaggio… e penso a quanti amici sedicenti non credenti, ma in
verità davvero pensosi e pensanti, sono stati invitati a parlare
nella parrocchia di don Angelo, e ci sono tornati ancora, dopo,
perché lì, in quello spazio, si sentono accolti con attenzione
vera e rispetto, nella libertà e nell’ascolto reciproco. E a quanti,
uomini e donne, inquieti e in ricerca di verità e di bene, sono
stati attirati dal calore e dalla luce della predicazione di questo
“prete minore” come lui talvolta si definisce, e hanno potuto
riscoprire l’immagine del Dio di Gesù finalmente liberata dalle
incrostazioni che ne alteravano i tratti.
“È necessario uno sbilanciamento, e lo sbilanciamento è verso
chi è fuori secondo i nostri canoni. È rimasto qualcosa, in questa
stagione ecclesiale, di questo sbilanciamento vissuto da Gesù?”.
Una voce flebile, quella di don Angelo, che però dice cose
fortissime che ti provocano, ti motivano, senza mai colpevolizzarti:
il piccolo miracolo di chi ama, di chi è innamorato. A Enzo Bianchi
che gli chiede come può in parole semplici dirci cosa è stata,
cosa è, per lui, la fede: “essere sfiorati dalla grazia, essere
innamorati…”
La
fede nell’invisibile
Filtrano
tra le nubi tenui raggi di sole, nel cuore del giorno che avanza,
e mentre ci avviamo a gruppetti nelle sale da pranzo preparate
per accoglierci - sarà come sempre un mangiar bene, semplice e
curato, anche se oggi siamo tanti davvero - mi raggiunge l’amica
Annamaria, arrivata da lontano e qui per la prima volta: insieme
ammiriamo la bellezza intorno, le foglie ormai oro e rosso degli
alberi, il verde ancora smagliante dei prati e i fiori ancora
intatti nei loro colori, grazie a un autunno eccezionalmente mite.
E mi sorprendo a pensare che siamo in una conca, non in cima a
un monte: quasi grembo che accoglie e invita, più che vetta da
raggiungere faticosamente. I fratelli e le sorelle sorridono e
sorridono, eppur faticano non poco a contenere le nostre chiacchiere
prima durante e dopo il pranzo.
Quando l’incontro riprende, è per rispondere a domande, è per
commentare quanto ascoltato. Emergono ora, con incisività, i temi
che affratellano i due ospiti e il priore di Bose, ma anche tutti
noi che oggi ci siamo sentiti convocati: la fede sottovoce e non
urlata, la libertà che sola permette allo Spirito di guidarti
dove vuole, il coraggio di dire e di indignarsi se necessario,
l’elogio della lievità e della piccolezza, l’amore per la fragilità
del volto, l’accoglienza e la tenerezza. Tratti di un Dio amante,
di un Dio che libera, a noi rivelati dal suo Figlio venuto per
dare agli amici la vita e darla in abbondanza. “Dire la fede
è impossibile -
dice don Luigi -
è un cammino in cui incontri Gesù e il Vangelo, li conosci e li
ami, giorno dopo giorno, nella libertà, senza complessi, senza
condizionamenti”. Ed Enzo ci confida che oggi, la fede, per
lui è una saldezza dentro, rimanere saldi, come si legge nella
Lettera agli ebrei: “Mosè restò saldo perché vedeva l’invisibile”.
Una parola che è per noi incoraggiamento a non cedere alle tante
tentazioni che viviamo nella quotidianità: lasciarsi andare per
la fatica del cammino, cedere alle ombre e ai dubbi, essere presi
dal senso di impotenza e di sconfitta. Stare saldi nella fede
dell’invisibile, giorno dopo giorno, nella libertà, dietro ad
un mistero che “di valle in valle sempre ti seduce”, come
suona il verso di una delle più belle poesie di don Angelo, pubblicata
nella nuova raccolta “Il silenzio delle cose” curata con
grande raffinatezza dai fratelli di Bose.
Quando è ormai l’ora dei saluti, una nuova allegria circola tra
noi e mi pare davvero che una grazia mi ha sfiorato: e forse è
la grazia dell’“ottavo sacramento”, come don Michele Do aveva
denominato l’amicizia.
Franca Ciccòlo
A
Milano, il primo novembre 2007, festa di Ognissanti
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DIO,
DOVE SEI? DOVE TI HO GIÀ INCONTRATO?
Martedì,
23 ottobre, la nostra “cattedra dei non credenti” ha ospitato
Don Virginio Colmegna, Presidente della Casa della Carità di Milano.
Diamo spazio nelle nostre pagine alla seconda parte del suo intervento,
che prendeva la forma commovente di una confessione personale,
dietro l’interrogativo: “perché io sto con loro?” (registrazione
dalla viva voce a cura di Rita Girotti).
Mi
è venuto spontaneo, dopo queste riflessioni, chiedermi qual è
la parola del Vangelo che mi interrogava di più. Entro nella fase
un po’ più personale. Ho ripreso a guardare la mia vita, i miei
incontri, il mio stare con i cosiddetti ultimi della fila, con
le tante storie di vita che riempiono le cronache. Mi sono detto:
“Perché mai debbo lasciarmi attrarre da questa sensazione strana
che tutto sembra inutile? Sto con loro per un falso desiderio
di sacrificio o per conquistarmi una benevolenza presso il Dio
degli ultimi? Questa apparente bontà la catalogo nei meriti che
voglio conquistare?”. Mi sembra un pensiero vuoto e senza senso.
Avendo nella casa dove abito oggi, tra gli ospiti, le persone
più indesiderabili della città, genericamente detti “rom”, mi
vien da dire: chi me lo fa fare? Anche coloro che dovrebbero presiedere
alla carità ecclesiale, quelli che danno i mandati, oggi nei nostri
confronti sono forse preoccupati di un eccesso di attivismo concreto.
Forse bastava dichiarare che qualcuno si deve occupare di loro,
ma non rischiare di stare con loro, con tutto quanto questo comporta.
No,
non vi è contraccambio in questa scelta, anzi mi sento di respingere
ogni idealizzazione dell’impegno. Mi vien voglia di gridare: “Vivo
questa vicinanza e basta! Non chiedetemi le ragioni, non le so.
Sono come voi pieno di paure, di incertezze, anche di rabbia”.
Questa prossimità è impastata di difficoltà. Anzi, vedo i risultati
lontani e l’indifferenza che cresce. Posso dire che mi sento “fuori”
come loro, portatore di un linguaggio dimenticato, folle quasi,
perché non vi è ritorno di risultati.
“Chi me lo fa fare?” è la domanda che ritorna, e anche “Perché
noi dobbiamo fare”. Quella fede religiosa che consegna le buone
parole della carità, poi scompare. Eppure non mi posso staccare
dagli occhi quella quindicenne che ha partorito l’altra notte,
quei tre bambini con la loro mamma sbattuti fuori l’altra notte
dal dormitorio pubblico di viale Ortles, quel bambino di un anno
che una mamma felice ha reincontrato dopo che, anche per la nostra
vicinanza, l’ha riavuto dal Tribunale dei minorenni, un dono grande,
indecifrabile. E ho cominciato così a rivedere con calma gli incontri
che succedono, a dare valore a quanto gratuitamente sta succedendo.
La stiamo perdendo questa consuetudine di raccontare. E tutto
sta diventando immagazzinato in un’altra logica, con un altro
linguaggio. E forse l’assistenzialismo ha trasformato il nostro
linguaggio in un linguaggio retorico. Per questo cerco di farmi
attrarre da questi incontri, di capirne il dono, e di comporre
anche da lì il mio essere credente, il mio amore per la vita.
Sì, così come sono, inquieto e per questo assetato di incontri.
La
mia ricerca diventa allora un cammino fatto di incontri, con la
grande domanda: “Dio, dove sei? Dove Ti ho già incontrato?”. Mi
ribello all’idea, che spesso accompagna la didattica credente,
di conquistare l’amicizia di Dio e la Sua benevolenza con la buona
azione caritativa. Questa carità che conquista il Paradiso non
mi interessa, anzi mi fa incontrare un Dio che cataloga. No, non
posso mettere i poveri sul conto di Dio, quasi sentirli come uno
strumento dato a noi per salire e incontrare quel Dio che porta
a superare il tempo. No, non so che farmene di un Dio che ci lascia
i poveri per diventare buoni o per testimoniare che ci sono buoni
e cattivi. E allora continuo a sentire in me un grande desiderio
di capire, di lasciarmi attrarre dal gratuito, dalla scoperta
di un incontro con un Dio che si nasconde, che ha un volto inaspettato,
che prende il nome e il cognome di qualcuno che ha fame, sete,
è ignudo, malato.
A
questo punto della mia meditazione mi è venuto tra le mani il
brano di Matteo 25: “Avevo fame, mi avete dato da mangiare, avevo
sete, ero forestiero”. Quando? Ho letto il brano tutto d’un fiato,
quasi ansioso di scoprire, e ho trovato la grande contraddizione
di un Giudizio, che può risolversi o nella paura di essere allontanato,
messo da parte per il castigo o anche nella tentazione consolatoria
di addebitarmi i meriti. Anche questa chiave di lettura mi infastidiva.
Leggi e rileggi questo brano mi sono soffermato su una parola
chiave: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato, assetato?”.
Uno non sa: è l’incoscienza dello stare con gli ultimi senza secondi
fini, senza calcoli e decisioni precedenti. È il lasciarsi attrarre
dall’incontro quando capita, il condividere senza sapere il perché,
è l’incoscienza della carità, della fraternità umana che è vissuta
perché va vissuta.
Stare
dalla parte di quella domanda significa farsi incantare ancora
da un Dio che l’uomo neanche sospettava di incontrare e lasciarsi
riempire di sorpresa. Ed allora mi sono avventurato a rileggere
questo testo che tutti conosciamo; ho contato anche nel testo
i riferimenti richiesti: affamato, assetato, straniero, nudo,
malato, prigioniero, sono sei incontri. Ho anche avvertito che
dovevo arrivare al numero sette, che nella Bibbia è segno di pienezza,
e allora mi sono messo a pensare che il settimo riferimento è
quello lasciato a ciascuno di noi, alla storia che viviamo. Va
completato da noi questo racconto biblico. Questo brano non è
una parabola e questi versetti si distinguono dai precedenti versetti,
che sono una descrizione della venuta gloriosa del Figlio dell’Uomo.
Qui il Figlio dell’Uomo prende sorprendentemente l’immagine di
un Figlio dell’Uomo affamato, assetato, stanco. Dunque il Giudizio
universale viene compiuto da un Dio incontrato nell’affamato,
nell’assetato, nel carcerato. Continuo a rileggere il brano come
mai mi era capitato, affascinato da questa sorpresa. Questo Figlio
dell’Uomo separa gli uni dagli altri, cambia la storia umana,
il modo di descriverla e di viverla. Si noti anche nel testo il
cambiamento del genere grammaticale: “Davanti al Figlio dell’Uomo
saranno radunate tutte le genti ed Egli li dividerà gli uni dagli
altri”; dunque il Giudizio finale è universale, si guarda a tutte
le genti, ma è anche un giudizio personale, di ciascuno, preso
singolarmente. E ancora una volta sento dentro di me un respiro
libero, questo Figlio dell’Uomo è familiare, la paura quasi si
allontana, non si tramuta in angoscia. La metafora del Pastore
che separa le pecore, bianche, più bisognose di riparo durante
la notte, dai capri, neri, più robusti, è il solo elemento parabolico
presente in questo brano che in Matteo non ha sfumature. Ma nella
dichiarazione del re, e nella risposta dei giudicati, viene ripetuto
per ben quattro volte l’elenco delle sei azioni misericordiose.
Non si tratta semplicemente di un programma etico, ma di una imitatio
Dei. Un rabbino, commentando il versetto “seguirete il Signore
vostro Dio”, si chiede: può un uomo seguire veramente Dio quando
nello stesso libro è detto “il Signore tuo Dio è un fuoco che
consuma”? Risponde: ciò significa che si deve seguire la condotta
di Dio: e come Dio ha vestito quelli che erano nudi, Adamo ed
Eva, vesti anche tu quelli che sono nudi; come Dio ha visitato
gli ammalati, Abramo, pure tu visita gli ammalati; come Dio ha
consolato gli afflitti, Isacco, consola anche tu gli afflitti;
come Dio ha seppellito i morti, Mosé, tu pure seppellisci i morti.
Ma
quello che mi ha impressionato, quello che è davvero rivoluzionario
in questo brano, è che lo stesso Giudice si considera oggetto
di tali azioni: ho avuto fame e mi avete dato da mangiare. Capite,
il Re Giudice diventa uno qualsiasi, uno dei tanti fratelli piccoli
di questa terra. Per entrare in comunione con il Dio che ci consegna
all’eternità, che supera il tempo, bisogna lasciarsi sorprendere
da questa misericordia, questo sacramento della presenza storica
del Figlio dell’Uomo. Ed allora tutta la mia ricerca trova qui
un approdo. in questo anelito di prendere il cammino, di fare
le sei tappe. Con una settima tutta contemporanea con i volti
dei nuovi poveri, quelli che sono con noi. Lontani dal desiderio
di catalogare Dio, di metterlo al sicuro e al riparo, quasi dovessimo
difenderlo noi, per incontrarlo dove vogliamo noi, per essere
rassicurati. Lui ci ha svelato dove in verità possiamo incontrarlo.
Vi
è in questo brano certamente una interpretazione universalistica
che si rivolge a tutti, credenti e non credenti; questo brano
ci dice che la fine del mondo che è un po’ anche la nostra fine
e che potrebbe metterci angoscia, è avvolta da un giudizio che
non è altro che riconoscere e scoprire che ci si è fatti attrarre
dall’amore. Si è giudicati dall’amore, o meglio si rimarrà sorpresi
allo scoprire che Dio era già in cammino con noi. Confesso che
questa lucidità non accade tutti i giorni, quando siamo richiamati
dai drammi a una risposta urgente, ci mancherebbe altro. Però
guai se nelle scelte quotidiane e concrete perdessimo questa interiorità
profonda, che rischia di essere smarrita, per la nostra incapacità
di essere sorpresi da Dio che è là dove non ti aspetti, per la
nostra voglia di rassicurare quasi Dio che noi all’appello ci
siamo, mentre qualche volta Dio è là dove noi non ce l’aspettiamo.
Ecco, ho avvertito il gran desiderio di raccontare a me stesso
chi è questo Gesù, quale è il suo volto, con la modalità del vangelo
di Matteo, mettendomi dalla parte di chi ha fame e sete, ma anche
con il settimo passo di chi, come me, è un uomo in ricerca, inquieto,
segnato da paure, uomo che continuamente si domanda: “Dio, dove
sei? Perché non mi ascolti? Non vedi guerre, divisioni, violenze?”.
Dentro questa storia così difficile mi imbatto in questi interrogativi:
ma è mai possibile che dentro tutte le fatiche, tutta la concretezza
dei patti di socialità, di legalità, tutti i ragionamenti che
pure dobbiamo fare, guai se non li facessimo, si perda questa
interiorità, l’incanto di scoprire che comunque ci portiamo dentro
una domanda di fraternità, la coscienza di essere figli di un
medesimo Padre, una domanda di fraternità che rischia di essere
smarrita dentro questa cultura rigida che sembra quasi riappropriarsi
del proprio Dio, desiderosa di tenerlo chiuso nei propri schemi,
qualche volta di conquistarlo, quasi che avessimo bisogno di Dio
per renderlo utile a noi.
E Dio ci sorprende. Ci sono alcuni eventi, alcuni affidamenti
che vengono dati dalla storia che viviamo, che dovrebbero essere
letti a questa profondità, per cercare di avvertire che Dio è
là dove non t’aspetti. Ti sorprende. Per poter poi raccontare
a noi stessi il nostro cammino di inquietudine, di ricerca di
fede e dialogare con tutti. Ma se non c’è questo palpitare di
umanità, di umanità magari sconfitta, tradita, esclusa, che è
quella del mistero della Croce, sconfitta nella nostra esperienza,
noi ci lasciamo affascinare da un Dio che ci sfugge. E questa
è una lettura che dovremmo dare, una verità che dovremmo raccontare
a noi stessi e agli altri. Ne hanno bisogno i giovani, noi ne
abbiamo bisogno, la comunità cristiana ne ha bisogno, la comunità
cristiana che spesso è tentata di conquistare la carità, di renderla
apologetica, una carità che ci serve, per dire che siamo bravi.
Mentre laddove invece si va dentro nei meandri della difficoltà,
dell’esclusione, dell’indifferenza, diventiamo calcolatori anche
noi, non c’è un’eccedenza della carità. E allora la carità diventa
elemosina. Non c’è l’eccedenza dell’oltre, che è spiegata soltanto
se vi è un oltre che ci supera continuamente.
Anche
oggi eravamo a fare i conti di dove mai mettere a dormire quelli
che erano ospitati da noi, una vicenda con la quale ogni giorno
ci confrontiamo. E la mia domanda era ancora quella con cui iniziavo:
perché dobbiamo entrare in relazione anche con questa storia,
oggi è la loro, domani sarà la storia di altri. Perché? Qual è
la motivazione? È una domanda che forse ci fa intravedere il filo
nascosto di questa spiritualità nascosta. Quei volti, quelle storie
portano con sé, oggi più che mai, sentimenti di rifiuto, che ci
rendono tutti poveri e impauriti, forse perché non sappiamo scoprire
la straordinaria fecondità dell’amore senza calcoli e senza secondi
fini, quell’amore evangelico che è profezia di pace.
L’importante
è avere il coraggio di ridiventare ancora e finalmente semplici
e fiduciosi, convinti che l’altro è vicino a te come Lui. Qualsiasi
altro. Avevamo iniziato questa riflessione con la domanda che
ritorna: dov’è Dio? dove incontrarLo? dove trovarLo? dov’è Dio?”.
“Non sta” dice un midrash “tra i conoscitori della sua identità,
non sta nelle istituzioni che Lo rappresentano, è là dove nessuno
se lo aspetta. Chi non è niente Lo ospita e Lo diventa”. Il Nuovo
Testamento ha dislocato Dio trasferendo il suo habitat dal Tempio
al Corpo di Gesù, ma è appunto Lui che muore sulla Croce escluso
da tutti: l’escluso è ormai l’inizio della sua presenza. La ricerca
appassionata di Dio ci porta qui.
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La
notte alla notte ne trasmette notizia
Itinerario
di Avvento 2007
Mercoledì
5 dicembre ore 21
DON FRANCO BUZZI
Prefetto della Biblioteca Ambrosiana
COMUNICARE LA FEDE?
Giovedì 13 dicembre ore 21
PAOLO COLOMBO
Responsabile Centro Studi delle ACLI
TRADIZIONE DELLA FEDE E RELATIVISMO
Martedì
18 dicembre ore 21
CONCERTO DI NATALE
con il Coro MusicainCanto
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nel
mese di novembre, quasi dedica ai nostri morti
EPIGRAFE
Non mi vestite di nero:
è triste e funebre.
Non mi vestite di bianco:
è superbo e retorico.
Vestitemi
a fiori gialli e rossi
e con ali di uccelli.
E tu, Signore,
guarda le mie mani.
Forse c’è una corona. Forse
ci hanno messo una croce.
Hanno sbagliato.
In mano ho foglie verdi
e, sulla croce,
la tua risurrezione.
E, sulla tomba,
non mi mettete marmo freddo
con sopra le solite bugie
che consolano i vivi.
Lasciate solo la terra
che scriva, a primavera,
un’epigrafe d’erba.
E dirà
che ho vissuto,
che ho atteso,
che attendo.
E scriverà il mio nome e il tuo,
uniti come due bocche di papaveri.
Adriana
Zarri
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PADRE
CLOVIS DAL BRASILE
Salvador,
27 ottobre 2007
Mio carissimo Don Angelo
Dio ti benedica!
Ho ricevuto il tuo fax del 18.09.07 nel quale mi parli dell’invio
di due bonifici, tremila euro uno e duemila euro l’altro, per
la costruzione delle case dei nostri bambini di strada, chiedendomi
di confermarti l’arrivo degli stessi.
I due bonifici sono già arrivati e sono arrivati in un’ora molto
importante, quando già mancavano soldi per continuare la costruzione
delle nostre sette case che adesso stanno a buon punto con previsione
di inaugurazione nel prossimo 31 ottobre.
Preghiamo Dio in questo senso!
Prima di finire ti ringrazio, mio caro Don Angelo, per il tuo
speciale e deciso impegno in favore delle nostre opere sociali.
Ringrazio i tuoi parrocchiani in generale e ringrazio particolarmente
i tuoi bambini e ragazzi dell’oratorio per la campagna quaresimale
destinata ai nostri bambini degli Alagados e adesso di quelli
di strada.
Il mio abbraccio pieno di riconoscenza, amicizia e affetto a te
e ai tuoi parrocchiani
Padre
Clovis Souza Santos
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Un
Natale che si fa dono…
Anche
quest’anno la nostra parrocchia vuole stimolarci a vivere il Natale
in sintonia con il mistero che celebriamo: quello di un bambino,
che entra poveramente nella storia. Lo fa suggerendoci un’occasione
concreta per offrire a tanti bambini, di cui il Signore si è fatto
immagine e icona, la possibilità di accedere a programmi didattici
e ricreativi, che permettendogli di sviluppare le proprie potenzialità,
mettano le ali ai loro sogni e gli aprano prospettive di futuro.
Riprendendo quindi lo stile che ci ha caratterizzato negli ultimi
anni e rinunciando all’uso di manifestare auguri ed affetto scivolando
nella logica, ormai fuori controllo, del consumismo, la proposta
è quella di regalare un “gesto di solidarietà”, contribuendo alla
realizzazione di una Biblioteca per ragazzi, a Nueva Concepción,
Dip. di Chalatenango, in El Salvador.
Il
progetto, ideato e seguito dal Gruppo O. Romero, presente mensilmente
con il Banchetto Equo-Solidale nella nostra parrocchia, conta
sulla collaborazione di un gruppo di giovani teatranti della Caritas
diocesana di Chalatenango e dei maestri delle scuole locali.
Concretamente
faremo così:
a quanti vorranno partecipare, portando in Segreteria parrocchiale
il proprio contributo, corrispondente al/ai regalo/i che desiderano
fare, verrà consegnato uno o più sacchetto/i artigianali in iuta
e terracotta con all’interno un segnalibro in pelle, artisticamente
decorato in El Salvador, un depliant con la presentazione del
progetto, un angioletto fatto con bucce d’arancia.
La
raccolta e distribuzione inizieranno da lunedì 19 novembre.
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Nella
Comunità parrocchiale:
hanno
ricevuto il Battesimo
SARA
PAPI ROSSI
LUCA TOMASELLA
VALENTINA SOZZI
STELLA ALICE GILARDI
GABRIELE ALESSIO BREGA
VALENTINA MARASCO
PIETRO ILIO ARMANDO MARASCO
CAMILLA ALBA CASTAGNA
RACHELE GEA PARISI
LORENZO DIMICHINO
BLANCA DE LOS ANGELES RODRIGUEZ HERNANDEZ
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si
sono uniti in Matrimonio
ANDREA
TOMASELLA e ILARIA VITO-COLONNA
GIUSEPPE ROMANO e BARBARA ELENA DONATELLA BARTOLI
DAVIDE CARTONI e PAOLA ROSARIA DE MARTINO
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abbiamo
affidato ai cieli nuovi e alla terra nuova
FRANCESCO
GABRIELE (a. 86)
ANNA MARIA BIONDI ROSSI (a. 41)
LORENZO CASSI (a. 78)
LAURA PANNOCCHIA (a. 63)
EDOARDO ENRICO PELANDA (a. 91)
PIETRO SANTORIELLO (a. 69)
LAMBERTO MALATESTA (a. 95)
VITTORIO CESARE MANFREDI (a. 89)
GUGLIELMO ATTILIO ALFIERI (a. 95)
LEONELLO GUERRA (a. 75)
MARIA LUIGIA ANNA RECUPITO (a. 87)
SILVANA SETTI (a. 82) CLIA GIAROLI (a. 87)
ERNESTO GIOVANNIMARIA CIRILLO ROSI (a. 92)
RACHELE ANTONIOTTI ved. MEMBRETTI (a. 91)
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