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Adora
ogni cammino e sosta ad ogni torrente
Non
ricordo il pulsare delle stelle fuori dall'aeroporto di Linate,
quando all'inizio di settembre - era ancora notte - ci demmo appuntamento
per un viaggio, agli occhi di qualcuno un po' strano, agli occhi
di altri troppo avventuroso. Partivamo per l'Uzbekistan. Non ricordo
il pulsare delle stelle.
Ricordo
invece, come fosse oggi, il pulsare delle stelle, fuori dell'aeroporto
di Tashkent, la notte del ritorno. Ricordo che prima di mettere
piede dentro le luci, quasi a porre uno stacco dall'atmosfera
convulsa che di lì a poco avrei respirato nell'aeroporto,
frenai la corsa della valigia e mi girai all'indietro a contemplare,
in un grembo di cielo di un buio assoluto, il parlottare segreto
delle stelle. Ancora una volta mi ricordai di Abramo, chiamato
da una voce a una numerazione impossibile: a contare le stelle!
A qualcuno mai riuscì la conta delle stelle? Contava, lui,
uomo del cammino, in una notte lontana. E, a mezzo della conta,
penso, di tanto in tanto prendeva fiato e si ridiceva la promessa:
"Ancor più numerosi i miei discendenti!" si diceva.
Tra
i suoi discendenti, nel grembo delle stelle, noi che partivamo,
ma anche quel popolo che stavamo per lasciare, il popolo uzbeko,
nella stragrande maggioranza fatto di musulmani. Anche loro legati
per discendenza al padre della fede, Abramo. Un padre nomade.
E nomadi i figli, uomini e donne del viaggio.
Ti
dirò che, di ritorno, per una strana concatenazione di
fatti, mi avvenne di riflettere sulla dimensione del viaggio,
essenza della fede, che ci costituisce radicalmente nomadi. E
se non siamo nomadi, non siamo credenti, ma uomini e donne degli
idoli. Una dimensione che mi è stata richiamata anche da
un libro affascinante di un monaco amico, Sabino Chialà,
del monastero di Bose, il libro ha un titolo: "Parole in
cammino" (Qiqaion, Comunità di Bose) e, insieme, dall'ultima
rivista di un altro gruppo di amici, gli amici di "Ore Undici".
L'ultimo numero della loro rivista portava un titolo: "In
cammino".
Chi
cammina sperimenta una sorta di spaesamento. Non solo fisico.
Ma anche mentale, spirituale. Chi viaggia sperimenta, mi si perdoni
la brutta parola, una sorta di "provincializzazione"
dello spirito. Chiusi in noi stessi diventiamo a volte, consapevolmente
o no, provinciali. Fino ad illuderci che il mondo, la fede, la
civiltà, la cultura, la bellezza finiscano nello spazio
ristretto che noi abitiamo.
Lasciateli
tronfi a ripetere
con assoluta
impassibile certezza
da case senza finestre
senza cuore di nomadi
che la loro
è l'unica civiltà del mondo.
Tu indugia
e adora ogni cammino.
Sosta ad ogni torrente
e tocca il nuovo
dell'acqua. E canta
il Dio delle infinite sorgenti.
In
terra uzbeka, a Khiva, a Bukhara, a Samarcanda abbiamo vissuto
una sorta di spaesamento e di seduzione: ci siamo incantati alla
bellezza mozzafiato di mausolei, di moschee, di minareti, di madrasse,
le meravigliose scuole coraniche. Sorridono le moschee, sorridono
i cieli né sai dove inizi e dove abbia fine il sorriso.
Si incantano i giorni. Si incantano le notti, quando nel cielo
blu scuro sfumano in sagome colorate cupole di moschee e minareti.
Maioliche
sorridono a Dio
in cieli
stupefatti d'azzurro.
E a minareti e madrasse
stupiti s'incantano
e fioriscono i cieli.
Sorride Dio
all'ingegno,
alla bellezza dei figli
fatti ad immagine
della nuda invenzione.
Ti
prende la sensazione che civiltà millenarie qui, sulla
"via della seta", si siano date convegno, fermentandosi,
direbbe il cardinale Martini, l'un l'altra e generando bellezza.
E non può non stupirti che il miracolo dell'arte sia fiorito
nella povertà nuda del deserto.
Attraversiamo
sabbie e sabbie, grigie e calde, su una pista sconnessa che buca
di sete l'oltre che è oltre.
Su
sabbie pallide,
greggi e greggi di arbusti,
velati di grigio,
succhiano l'ultima goccia
al deserto,
mentre asini e capre
brucano lenti
a passo d'eterno
il pieno del nulla.
Un
deserto che ti sorprende con il suo tempo diverso. Forse anche
gli automezzi qui hanno un tempo diverso. Siamo fermi nel viaggio,
e più di una volta, a spiare con occhi d'ansia gli autisti
che mettono mano alle cinghie di un motore bruciato dal tempo
e dal deserto. E rivivi i versi di Bertold Brecht:
Siedo
sul ciglio della strada.
Il guidatore cambia la ruota.
Non mi piace da dove vengo.
Non mi piace dove vado.
Perché guardo il cambio della ruota
con impazienza?
Ma
forse anche il deserto, questo brucare di stenti, questo suo improvviso
accendersi al verde ogni volta che le sabbie succhiano un nulla
d'acqua, mi dà l'immagine, commovente, di questo popolo
che, preso da fierezza, sta strappando, alle sabbie di un passato
di schiavitù, un'ora di grazia. E l'ora di grazia dei piccoli,
l'ora di grazia del riscatto, passa forse anche attraverso le
tele colorate, i ricami fantasiosi, i tappeti istoriati, che ti
agitano ogni dove. Ti dirò che, al primo impatto, patii
tutto ciò come una sorta di arrembaggio, di invasione.
Poi mi avvenne di guardare da un altro orizzonte, come se i piccoli
volessero svelare a noi occidentali la fantasia e l'ingegno di
un popolo. E io, che nel cuore mi ero andato lamentando che nei
chiostri delle scuole coraniche ricami e tappeti e tele disturbassero
l'armonia perfetta delle forme, alla fine cominciai a pensare
che quella era la dura necessità di un popolo e che a vendere,
dopo tutto, erano i poveri, i piccoli. E forse era per il pane
di quel giorno.
Più
non so, ti confesso,
se oggi il profeta
di Nazaret
agiterebbe qui la sua frusta
infuocata
dello zelo, a rovesciare
bancarelle e mercati
che succhiano
bellezza e mistero
a moschee e madrasse.
Più non so.
Questo mercato dei piccoli
narra il sogno segreto
di un pane quotidiano,
il pane
della fame
di un giorno.
Come
a dire che c'è mercato e mercato. E vanno superate le distanze.
Finché
tu abiti, rintanato, il tuo mondo, finché ti neghi il rischio
del viaggio, sei socio solo di presunzioni e pregiudizi. Datti
un cuore nomade, cammina, avvicina, osserva senza parlare, tocca
con il tuo sguardo la pelle dell'altro.
"Ci
guardano come fossimo bestie. Voi questa sera, no." Così
ci dissero - e gli occhi erano lago di tristezze infinite - i
quarantasette rom, che abbiamo ospitati una notte, giorni fa,
nella nostra parrocchia. Mi capitò quella notte di emozionarmi
a contemplare il viso scavato e stanco di Virginio, di Massimiliano,
di Maria Grazia, soli, lotta impari, a lottare contro il montare
di un brutale imbarbarimento. E noi a chiederci dove si è
rifugiata l'immagine di una vera umanità. Noi a chiederci
se non dovrebbe essere la fede, che ci fa costituzionalmente nomadi,
a difendere ancora l'ultimo squarcio di umanità in tempi
di abbrutimento. E come non gioire invece ad ogni segnale che
guarda al futuro. Alcuni giorni dopo quella notte, i quarantasette
romeni furono ospiti alla capanna della comunità ebraica,
allestita in piazza Cordusio. E a fare gli onori di casa il rabbino
Shamuel Rodal. "Noi ebrei" disse "quando ci incontriamo
diciamo shalom, che vuol dire pace e che deriva da un'altra parola:
completezza. Voi ci completate e noi completiamo voi." Essere
nomadi, in cammino verso la completezza che ti attende nel paese
dell'altro.
Il
viaggio vero dunque è dentro. Metti in viaggio l'anima.
Come è scritto nei versi stupendi di Jalal Al-Din Rumi,
mistico musulmano:
Anche
se tu non hai piedi, scegli di viaggiare in te stesso,
come miniera di rubini sii aperto all'influsso dei raggi del sole.
O uomo! Viaggia da te stesso in te stesso,
ché da simile viaggio la terra diventa purissimo oro.
don
Angelo
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…E MOSÈ CONVERTÌ DIO
Omelia
di don Angelo nella ventiquattresima domenica del tempo ordinario
domenica 16 settembre 2007 (Es 32, 7-11.13-14; 1Tm 1, 12-17; Lc
15, 1-32)
Con le parabole che oggi abbiamo ascoltato siamo al centro del
vangelo di Luca. Vorrei dire al centro in tutti i sensi. E non
solo perché le parabole sono al centro del viaggio verso
Gerusalemme che Luca sta raccontando, ma anche perché il
loro messaggio costituisce il centro, il cuore del vangelo, il
cuore della notizia bella. Su Dio e sull'uomo. Notizia della misericordia.
Notizia a volte dimenticata.
E
dimenticata - ecco il paradosso, il paradosso del vangelo - dai
cosiddetti virtuosi. Dimenticata, non accolta, dal figlio maggiore.
Occorre ricordare per chi sono state scritte le parabole che oggi
abbiamo ascoltato e qual è il contesto in cui Gesù
le ha raccontate. Richiamiamolo: si avvicinavano a Gesù
tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli
scribi mormoravano: "Costui riceve i peccatori e mangia con
loro". È contro questa mormorazione, che riguarda
Dio, che Gesù racconta la parabola. Contro la mormorazione
del figlio maggiore: "Per questo figlio che ha divorato i
tuoi averi con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello
grasso". Come dicesse: non ti riconosco padre. Come dicessimo:
non ti riconosciamo Messia, non ti riconosciamo Dio, ti sei messo
nella figura di uno che accoglie e mangia con i peccatori.
Lo
capivano i pubblicani e i peccatori. Luca dice "tutti"
i pubblicani e i peccatori. Forse esagera un po' Luca, come certo
non erano critici tutti gli scribi e i farisei. Ma Luca dice questo
per fermare la nostra attenzione sul paradosso: che i lontani
sono vicini e i vicini sono lontani. Lontani dal cuore del vangelo,
dalla sua notizia buona, la notizia della misericordia. E i più
duri da convertire sono loro, i cosiddetti virtuosi. Tant'è
- credo che l'abbiate notato - non sappiamo se si convertono:
è entrato o no il figlio maggiore, il cosiddetto virtuoso,
al banchetto dopo la spiegazione del padre? La domanda rimane
come sospesa. Si converte Dio, si convertono pubblicani e peccatori.
Si convertono gli osservanti?
Forse
vi avrà un poco meravigliato la mia espressione: "Si
converte Dio". Ma voi tutti avete ascoltato questa sera la
lettura del meraviglioso brano dell'Esodo. Dio, davanti a un popolo
che pretende segni luccicanti, idoli da toccare con mano, popolo
del vitello d'oro, dice a Mosè: "Ora lascia che la
mia ira si accenda contro di loro e li distrugga. Di te invece
farò una grande nazione". E Mosè - perdonate
l'espressione - "converte" Dio: "E Dio" è
scritto "abbandonò il proposito di nuocere al suo
popolo". Dio aveva cercato di tirarsi fuori da un rapporto,
di reciderlo, Mosè lo riporta dentro. Dio aveva detto a
Mosè: "Il tuo popolo, che tu hai fatto uscire dal
paese d'Egitto, si è pervertito". Il "tuo"
popolo. Un po' come succede alle mamme che la sera dicono al marito:
"Guarda cosa ha combinato tuo figlio!". E Mosè
supplicherà il Signore, suo Dio e dirà: "Perché,
Signore, divamperà la tua ira contro il tuo popolo, che
tu hai fatto uscire dal paese d'Egitto con grande forza e con
mano potente?". Il "tuo" popolo, che "tu"
hai fatto uscire. E Dio si converte, non recide. Qualunque cosa
avvenga, non recide il suo rapporto con il suo popolo. Non recide,
non reciderà mai - dovremo ricordarlo, sempre - il suo
rapporto con noi.
Questa
è la buona notizia su Dio. Che Gesù ci ha raccontato
con le sue parabole. Forse a tutti noi, a me per il primo, di
fronte alla nostra, alla mia indegnità, verrebbe spontaneo
dire, come successe a quel figlio prodigo: "Non sono più
degno di essere chiamato tuo figlio, trattami come uno dei tuoi
garzoni". Ma la reazione di Dio è: il vestito più
bello, i calzari, il vitello grasso, la musica, le danze. Questo
è Dio: lui non si tira fuori da un rapporto, lui non recide,
lui gode come il pastore anche per un sola pecora, lui come la
donna della parabola gode anche per una sola dramma ritrovata.
A fronte delle nostre ubriacature per le folle oceaniche. Lui
non è il Dio delle masse indistinte, è il Dio attento
a ciascuno, appassionato ad ognuno, ad ognuno di noi.
E
vorrebbe che i suoi figli gli assomigliassero, e che non si distanziassero
mai da un fratello, comunque sia. Il figlio maggiore si distanzia,
dice al padre: "Questo tuo figlio
" e il padre
gli ribatte: "Questo tuo fratello
questo tuo fratello
era morto ed è tornato in vita".
Questo
è il messaggio, la notizia buona, e insieme lo scandalo,
del vangelo. Dio rivela il suo volto nel mangiare con i peccatori.
Questo
banchetto è il vangelo: accogliere, riabilitare, trasmettere
alle persone la speranza, la certezza che non è mai tutto
perduto. Diversamente dagli acidi moralisti, intransigenti e antipatici,
senza cuore, rappresentati da quel figlio maggiore. Senza cuore,
senza il cuore del padre, stretti nella morsa del calcolo e dei
meriti: "Io merito, lui no, non merita". Loro pensano
di difendere la verità, ma non è certo la verità
del vangelo. Che è custodita in quel banchetto criticato,
il banchetto della misericordia. Che noi non possiamo tradire.
Lo tradiremmo se il nostro banchetto della eucaristia conservasse
qualcosa della grettezza, della acidità del figlio maggiore,
non avesse la gioia di quel padre, la gioia per chiunque ritorna.
Convinti che i primi ad aver bisogno della pazienza di Dio siamo
noi, perché basta dire che uno è uomo per dire che
è un povero uomo, bisognoso di perdono e misericordia.
Come tutti.
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QUI È IL TUO SGABELLO
Qui
è il tuo sgabello
e qui riposano i tuoi piedi
dove vivono i poveri,
i più umili, i perduti.
Quando a te io cerco d'inchinarmi,
la mia riverenza non riesce ad arrivare
tanto in basso dove i tuoi piedi
riposano tra i più poveri,
i più umili, i perduti.
L'orgoglio non si può accostare
dove tu cammini, indossando
le vesti dei più poveri,
dei più umili e dei perduti.
Il mio cuore non riesce a trovare
la strada per scendere laggiù
dove tu ti accompagni a coloro che non hanno
compagni, tra i più poveri,
i più umili, e i perduti.
Rabindranath Tagore
Ci sono gruppi che si ritrovano per passione delle Scritture Sacre.
Anche al di fuori degli ambienti strettamente ecclesiastici. Può
succedere che tema delle loro riflessioni diventi la figura del
povero nella Bibbia. Può succedere anche che, in una Liturgia
della casa, qualcuno legga questa poesia di R. Tagore. Può
succedere anche che qualcuno trovi sorprendenti consonanze con
la sua vita.
Caro don Angelo,
vorrei raccontarle cosa mi è successo qualche tempo fa.
Per lavoro mi è capitato di pulire le celle e i bagni dei
detenuti in alcune caserme.
Sicuramente un posto vale l'altro quando si deve pulire, ma non
è sempre così. Questi luoghi uno se li immagina,
si ricorda come sono nei films o come sono descritti nei libri,
ma un conto è figurarseli con il pensiero e un conto è
averli lì dietro una porta. Quando mi è stato chiesto
di pulirli mi è venuto un nodo in gola. Ho cominciato a
pensare che non ce l'avrei fatta ad entrare, ad andare oltre.
Il
maresciallo ha aperto una grossa porta, era spessa, pesante, con
una piccola finestra all'altezza degli occhi di un uomo. Come
quelle dei films, divisa in quattro quadrati uguali e con uno
sportellino che si apre e si chiude.
Io sono rimasta sulla soglia. Ho guardato dentro. Oltre quella
porta c'era un piccolo corridoio, sul quale si affacciavano tre
porte: due celle e un bagno.
Ho chiesto: "Maresciallo, non si possono aprire le finestre?
C'è un odore
".
Il maresciallo ha sorriso e mi ha risposto: "Qui non ci sono
finestre, queste sono celle
" e mi ha lasciato da sola.
Sono
rimasta un bel po' sulla soglia, mi aveva disturbato il rumore
di quelle porte che si aprivano, le chiavi che tintinnavano e
che erano state nervosamente mosse nelle toppe, il rumore dei
chiavistelli che si amplificava in quel vuoto.
Avevo paura, ma di che, se non c'era nessuno? Avevo paura di quello
che avrei trovato.
Quando mi sento schiacciare, opprimere da qualcosa durante il
giorno poi di notte ho un incubo ricorrente. Non è sempre
lo stesso, ma gli elementi sono sempre quelli: sogni i nazisti
nelle loro divise di guerra, i campi, gli elmetti, nel sonno mi
sento soffocare da urla in una lingua che non conosco, dal rumore
di passi cadenzati di stivali neri, lucidi, che portano la morte
Così,
io sulla soglia pensavo a queste cose e mi dicevo: "Stanotte,
mi sogno i nazisti!".
Poi, come se mi fossi risvegliata, ho pensato che quello era l'unico
lavoro che avevo, non potevo perderlo, non potevo andarmene. Allora
ho cominciato a pregare, ho chiesto aiuto perché da sola
non ce l'avrei fatta. Ho iniziato a dire "Padre nostro"
e mi sono ritrovata dentro.
Ho
cominciato a piangere in silenzio, non so perché. Mi asciugavo
gli occhi, sfregandoli con le braccia come fanno i bambini, perché
avevo guanti, stracci, scopa e paletta in mano.
Più
che un luogo, quello era un non-luogo, lì il tempo si fermava,
la vita era fuori. C'era il vuoto.
Non
c'erano riferimenti per accorgersi del tempo che scorre, che è
mattino, mezzogiorno, sera o in quale giorno o in quale stagione
siamo.
In quelle celle non c'erano piastrelle sul pavimento, c'era cemento
grigio. Grigio era il soffitto che continuava con le pareti, che
finiva col pavimento come un'unica striscia di colore grigio.
Non c'era lampadario sul soffitto, non c'erano chiodi alle pareti,
tutto era liscio e uniforme. C'era solo una "base" rettangolare
(un letto) saldata su un lato alla parete e sospesa da terra.
La
luce della lampadina del corridoio filtrava nella cella da un'apertura
con le sbarre posta sopra la porta. Luce e aria entravano da lì.
Il riscaldamento non c'era, c'era un termosifone, ma fuori, nel
corridoio.
Pensavo
che sì, le celle le avevano, ma che poi nessuno c'era mai
entrato veramente. Invece, chinandomi per pulire sotto quella
base, quel letto, ho trovato delle briciole di pane: briciole
bianche, senza polvere, segno che qualcuno era stato lì
da poco. Allora, non so perché, ho pensato a Gesù;
qualcuno lì aveva spezzato il pane, in quel non-luogo,
vuoto. Qualcuno non era stato lì da solo. Ero sicura di
questo, non mi chieda perché. In quel luogo di sofferenza,
di solitudine, in quel luogo dimenticato un uomo non era stato
solo.
In
quel momento ho provato una grande pace che non dimentico, mi
sono sentita molto serena, ho pensato agli amici riuniti a casa
di Marisa, a Carla, a Laura, agli altri
Ho finito il mio lavoro e sono uscita, ero persino contenta di
essere stata lì! Roba da matti!! Non avevo più paura
Con affetto
Marité
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IL
PROCESSO FARSA ALL'IMPUTATO GESÙ
DI
CARLO MARIA MARTINI
Il
Vangelo di Giovanni indica la necessità di giungere a superare
le tradizioni religiose quando non sono più autentiche.
Gesù è davanti al sommo sacerdote, probabilmente
ancora Anna, che lo interroga sui suoi discepoli e sul suo insegnamento.
Egli risponde che ha parlato sempre in pubblico, ha insegnato
nelle sinagoghe, nel tempio dove tutti si radunano; non comprende
dunque perché viene interrogato, mentre si dovrebbero interpellare
coloro che l'hanno ascoltato.
È
interessante notare che l'evangelista riferisce brevemente e in
forma indiretta ciò che dicono gli accusatori, mentre fa
parlare a lungo Gesù, presentandolo come colui che ha in
mano la situazione, che insegna quale sarebbe stato il procedimento
corretto, dando così una lezione al sommo sacerdote.
Ma
mentre parla, una delle guardie lo schiaffeggia e gli dice: "Così
rispondi al sommo sacerdote?". Gesù replica: "Se
ho parlato male, dimostrami dov'è il male; ma se ho parlato
bene, perché mi percuoti?". Nel Discorso della montagna
aveva insegnato: "Se uno ti percuote la guancia destra, tu
porgigli anche l'altra" (Matteo 5,39). Ora tuttavia egli,
con libertà somma, pacatamente e dignitosamente si difende,
dimostrando la sua superiorità sulla situazione e di poterla
dominare, pur se sta per essere sempre più schiacciato
e umiliato. Questo schiaffo è di fatto il primo dei colpi
che Gesù riceverà, il segno che non è intoccabile,
che è possibile scagliarsi contro di lui impunemente; è
un incoraggiamento per tutti coloro che in seguito vorranno colpirlo.
Egli tuttavia rimane saldo nella sua serenità e nella sua
forza interiore.
Termina
qui il processo religioso. Ci viene riferito che "Anna mandò
Gesù legato a Caifa, sommo sacerdote" , ma di un'azione
processuale da parte di quest'ultimo non si fa parola. Soltanto
si aggiunge, dopo una nuova interruzione su Pietro, che Gesù
viene condotto dalla casa di Caifa al pretorio e si accenna al
fatto che, poiché era l'alba, "essi non vollero entrare
nel pretorio per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua".
Con questo accenno culturale, di carattere piuttosto ipocrita,
si chiude il processo religioso, davvero brevissimo. Ora vorrei
tuttavia interrogarmi soprattutto sulla povertà del processo
così come è presentato da Giovanni. Mentre è
più plausibile nei sinottici, nel IV vangelo è una
vera farsa, una caricatura. Mi pare che Giovanni intenda probabilmente
sottolineare un indice di decadenza religiosa e giuridica: Gesù
viene portato davanti a chi non è autorizzato né
a interrogarlo né a condannarlo e tocca a lui spiegare
come andrebbe condotto il processo.
Ci
troviamo davvero di fronte al crollo di una istituzione, una istituzione
- notiamo - che avrebbe avuto il compito primario di riconoscere
il Messia, verificandone le prove. Sarebbe stato questo l'atto
giuridico più alto di tutta la sua storia. Invece fallisce
proprio lo scopo fondamentale. Certamente i sommi sacerdoti hanno
molti titoli di discolpa. Possiamo comprenderlo considerando tutta
la storia di Gesù e il modo con cui egli si è presentato;
soprattutto oggi si è molto sensibili alle scusanti del
popolo ebraico e anche, in qualche modo, dei capi del popolo.
Ciò non toglie che Giovanni ci mette di fronte a una istituzione
che ha perso l'occasione provvidenziale in vista della quale era
sorta. Si pone qui un problema gravissimo, quello della possibilità
che un'istituzione religiosa decada: si leggono ancora i testi
sacri, però non sono più compresi, non hanno più
forza, accecano invece di illuminare.
Molte
volte ho insistito sulla necessità di giungere a superare
le tradizioni religiose quando non sono più autentiche.
Solo la parola di Dio, rappresentata qui da Gesù, è
normativa e capace di dare chiarezza. E ho pure affermato, a proposito
della necessità di imparare a convivere tra diversi - la
sfida più urgente della nostra civiltà -, che non
dobbiamo tanto insistere sulla ortodossia religiosa delle singole
parti, auspicando che ciascuno sia religioso al meglio secondo
la sua tradizione. Le tradizioni, comprese le nostre, possono
conoscere infatti anche forme di decadenza. Occorre piuttosto
fermentarci e vivificarci a vicenda, al di là dell'appartenenza
religiosa, così che ciascuno sia aiutato a rispondere di
fronte a Dio. Personalmente non sono favorevole al dialogo religioso
quando considera le religioni come monoliti, realtà che
devono dialogare restando immutabili. L'uomo è fatto per
superare se stesso; come diceva Pascal: "L'uomo supera infinitamente
l' uomo".
Occorre
dunque lasciarci fermentare a vicenda da parole vere e autentiche.
Parole vere e autentiche, non collegate a una tradizione religiosa
precisa, le troviamo soprattutto nel Discorso della montagna.
Parole che toccano ciò che di più sensibile c'è
nell'esistenza umana: la fedeltà, la lealtà, l'umiltà
- non sappia la destra ciò che fa la sinistra -, il perdono,
il non preoccuparsi delle cose di questo mondo, non accumulare
tesori, non giudicare per non essere giudicati, fare agli altri
ciò che vorremmo fosse fatto a noi. Questo è un
insegnamento sicuro per tutti, che tocca nell'intimo il nostro
cuore e ha la forza di rinnovare un ebreo, un cristiano, un musulmano,
un indù, un buddhista, proprio in quanto attinge le profondità
dello spirito.
Dunque,
rimanendo necessario un dialogo a livello delle grandi religioni,
pur se spesso un po' formale, il nostro cammino interreligioso
deve consistere soprattutto nel convertirci radicalmente alle
parole di Gesù e, a partire da esse, aiutare gli altri
a compiere lo stesso percorso.
In
proposito mi colpisce un'analogia interessante con la cosiddetta
"meditazione dei due vessilli" degli Esercizi spirituali
di sant'Ignazio di Loyola, là dove si dice che Gesù
raccomanda ai suoi discepoli di predicare la vera dottrina. Ora
"dottrina" era la parola classica per indicare la Scrittura,
la tradizione teologica cristiana. Ignazio invece propone come
vera dottrina la povertà, l'umiltà, l'amore delle
umiliazioni, il non ricercare se stessi: "Considerare il
discorso che Cristo nostro Signore fa a tutti i suoi servi e amici
che invia a tale lavoro, raccomandando loro di aiutare tutti col
portarli, prima, a una somma povertà spirituale e, se piacerà
alla sua divina maestà e li vorrà scegliere, anche
alla povertà materiale; in secondo luogo, a desideri di
obbrobri e disprezzi, perché da queste due cose nasce l'umiltà".
Sono
le verità di fondo del Discorso della montagna, assolutamente
autentiche e affidabili, perché contengono anche la giusta
critica alle tradizioni religiose degradate. Ci rendiamo conto
che il compito del discepolo è grande, è un compito
di sincerità e di autenticità, e ad esso noi siamo
continuamente spinti da una grazia superiore alle nostre forze,
dalla grazia dello Spirito santo, che ci guida, ci stimola e ci
sorregge.
dal
libro di Carlo Maria Martini
Le tenebre e la luce. Il dramma della fede di fronte a Gesù.
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CORPO
DA RISPETTARE
anche nell'indegnità
di
Enzo Bianchi
"Quando si saranno alleviate sempre più le schiavitù
inutili, si saranno scongiurate le sventure non necessarie, resterà
sempre, per tenere in esercizio le virtù eroiche dell'uomo,
la lunga serie dei mali veri e propri: la morte, la vecchiaia,
le malattie inguaribili, l'amore non corrisposto, l'amicizia respinta
o tradita, la mediocrità d'una vita meno vasta dei nostri
progetti e più opaca dei nostri sogni". Parole che
Marguerite Yourcenar mette in bocca all'imperatore Adriano e che
noi sentiamo particolarmente vere e attuali nel nostro mondo occidentale,
dove il "principio piacere" sembra guidare la visione
del corpo che ci offrono i mezzi di comunicazione. Lì ogni
giorno siamo confrontati a una scissione dal dolore, a un oblio
della sofferenza, a una rimozione della bruttezza, a una negazione
del corpo deformato dalla malattia e, specularmente, siamo come
istigati a un'esaltazione del corpo prestante, a un'idolatria
della giovinezza, a un'esibizione di ciò che è superficiale.
Eppure,
quelle che Adriano chiama le occasioni per "tenere in esercizio
le virtù eroiche dell'uomo" davvero non mancano oggi,
in una società che alcuni hanno definito dell'"incertezza".
L'essere umano pare in balia di una mancanza di stabilità
interiore che contamina ogni aspetto della sua vita: precarietà
del lavoro, fragilità delle relazioni, incertezza sul futuro,
sconvolgimento dell'ecosistema... Non a caso alcuni sociologi
hanno colto come emergente nelle nuove generazioni una "incertezza
del corpo", qualcosa di ben più profondo e grave di
un'adolescenziale indeterminatezza sessuale: un vivere senza limiti
che finisce per tradursi in una vita depauperata di identità.
Da qui l'esigenza di riprendere in mano con "virtù
eroica" il rapporto con il proprio e l'altrui corpo e di
farlo non attraverso un'immagine idealizzata del corpo stesso
bensì a partire proprio dall'aspetto meno piacevole, quello
della sofferenza. Rispettare, ridare dignità all'essere
umano che abita un corpo ritenuto "indegno" dei parametri
oggi vincenti è operazione di controcultura che mira a
salvare l'essenza stessa della dignità umana.
Anche
l'uomo che ha perso la propria forma e ha assunto l'indegnità,
richiede che si riconosca in lui la dignità umana: sì,
è forse soprattutto questo "uomo senza qualità"
a conservare una dignità che invoca rispetto. Ciascuno
ha infatti diritto alla salvaguardia della propria dignità
non per ragioni religiose né per obbligo sociale vincolante,
ma semplicemente perché ridotto a nulla: l'essere umano
sfigurato genera la dignità in chi gli sta di fronte e
accetta di incontrarlo, di assumere il peso di un'umanità
avvilita, sprovvista dei tratti caratteristici di quella che siamo
soliti considerare "dignità".
Non
dimentichiamo che il rispetto della dignità umana è
fondato sulla nostra comune indegnità: l'uomo afferma la
dignità propria e dell'intero genere umano quando onora
nell'altro l'umanità degradata, incapace di esibire i tratti
propri dell'essere umano. Non è un caso che lo slancio
decisivo per giungere alla Dichiarazione universale dei diritti
dell'uomo sia venuto al consesso umano dall'aver toccato l'abisso
della disumanizzazione e della degradazione durante la seconda
guerra mondiale e l'inenarrabile malvagità della Shoah.
La dignità umana non è infatti un attributo peculiare
della persona nella sua singolarità: è una relazione
e, come tale, si manifesta nel gesto con cui ci rapportiamo all'altro
per considerarlo nostro simile, ugualmente uomo, anche se la forma
che questi è venuto ad assumere denuncia un abbrutimento,
una non-umanità, un aspetto "disumano". Siamo
chiamati a rispettare la persona umana offesa dall'obnubilamento
dell'Alzheimer, assimilata al letto o alla carrozzella su cui
giace, ferita nelle facoltà fisiche o intellettuali, senza
mai identificarla con la sua infermità che diviene anche
"in-formità": l'essere umano nella sua indegnità
richiede rispetto nonostante la sua miseria fisica, psicologica,
morale anzi, proprio in essa va riaffermata la perdurante dignità
umana.
Questo
perché il corpo permane, nonostante tutto, il "luogo"
della nostra inscrizione nel "senso" della vita. Nel
corpo che mi accomuna a ogni uomo e da ogni uomo mi differenzia
e mi personalizza, è incisa la mia unicità e irripetibilità
e anche la mia chiamata a esistere con e grazie agli altri. Il
corpo è il memoriale della vocazione di ogni uomo alla
libertà e alla responsabilità. Non scelto, il corpo
è dono oppure onere, fardello. Di certo esso diviene un
compito, un mandato da realizzare. E questa è l'obbedienza
originaria dell'uomo inscritta nella nascita.
Queste
considerazioni umane elementari si declinano in ambito cristiano
alla luce della creazione e dell'idea che l'uomo è imago
Dei. Creato a immagine di Dio, il cristiano confessa che questa
immagine trova il suo volto nel volto di Gesù Cristo. Le
affermazioni bibliche circa la creazione dell'uomo a immagine
di Dio significano la creazione del corpo come entità relazionale,
come capax Dei e capace di relazione con gli altri, come entità
spirituale per eccellenza. Non a caso per la Bibbia il vero soggetto
della preghiera è il corpo. Non tanto nel senso estrinseco
per cui l'orante pone il proprio corpo in determinate posture
(si inginocchia, si prostra, tende in alto le mani, leva gli occhi
al cielo, batte le mani, danza ecc.) e neppure si tratta di un
problema di tecnica della preghiera (la preghiera è l'evento
meno tecnico e meno riducibile alla tecnica). In realtà
il problema è più profondo. Se la preghiera è
vita vissuta davanti a Dio, dunque vita, questa non ha altro luogo
che il corpo.
Ecco
allora che il grido e le lacrime, l'urlo e l'invettiva, la protesta
e l'abbandono confidente, la supplica e l'invocazione, il ringraziamento
e la lode, il riso e l'esultanza, il dolore e il piacere, il silenzio
e la riflessione, cioè tutte le multiformi espressioni
della preghiera sono linguaggio del corpo. Così si esprimeva
uno dei più lucidi biblisti dei nostri giorni, padre Paul
Beauchamp: "Il fragile strumento della preghiera, l'arpa
più sensibile, il più esile ostacolo alla malvagità
umana, tale è il corpo... L'anima non si esprime e non
traspare se non nel corpo: la stessa meditazione si esteriorizza
corporalmente prendendo il nome di "mormorio", "sussurro".
Il corpo è il luogo dell'anima e dunque la preghiera traversa
tutto ciò che si produce nel corpo. È il corpo stesso
che prega: "Tutte le mie ossa diranno: Chi è come
te, Signore?" (Sal 35,10)". Nella sua relazione con
Dio l'orante pone in primo piano il proprio corpo; per parlare
con Dio egli deve dire il proprio corpo: mani e braccia, piedi
e gambe, lingua e labbra, bocca e gola, viso e capo, occhio e
orecchi, cuore e reni
Questa
unità profonda dell'essere umano ci mostra allora come
il corpo non è un fardello fastidioso, non è la
parte materiale, corruttibile dell'uomo, non è quello che
con angoscia ciascuno di noi deve presto o tardi lasciare, ma
è la responsabilità che ci personalizza. I rabbini
così commentavano l'espressione "Facciamo l'uomo a
nostra immagine e somiglianza", che il libro della Genesi
mette in bocca a Dio: Dio dice "facciamo", intendendo
come soggetto di questo plurale Dio e l'uomo insieme: entrambi
impegnati a fare l'uomo a immagine di Dio. Sì, ogni giorno
si rinnova per noi il compito di realizzare il nostro corpo: un
compito arduo che richiede a ciascuno di fare appello alle "virtù
eroiche dell'uomo" per alleviare "la lunga serie dei
mali veri e propri" e far emergere la grande dignità
che abita nascosta in ogni corpo umano.
da
Avvenire del 23 settembre 2007
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Messaggio del Cardinale per la fine del Ramadam
Cari
amici,
In occasione di 'Id al-Fitr di quest'anno (1428 E. / 2007 A.D.),
come Arcivescovo di Milano desidero, a nome dei Cristiani della
nostra Città e della Diocesi ambrosiana, esprimervi l'attenzione
cordiale che nutriamo per il vostro impegno religioso nel vivere
fedelmente l'annuale mese di digiuno e nel celebrare la grande
festa con cui lo concludete.
Pensiamo
che la stima e il rispetto tra fedeli di differenti tradizioni
religiose debbano essere reciproci e basarsi sui rapporti di amicizia
tra le persone e su un minimo di corretta conoscenza della fede
altrui. Come chiediamo ai fedeli cristiani di superare la propria
eventuale ignoranza nei confronti dell'Islam, così riteniamo
che anche a voi sia richiesto lo sforzo di avere informazioni
corrette sul Cristianesimo. Cristiani e Musulmani non potranno
collaborare a promuovere una cultura di pace senza prima abbattere
i pregiudizi degli uni nei confronti degli altri, pregiudizi che
nascono e crescono sul terreno dell'ignoranza della fede dell'altro.
E questo vale per tutti.
Avere
un'idea vera e giusta del messaggio cristiano è tanto più
necessario per chi - come la quasi totalità di voi, cari
Musulmani - si trova ad essere immigrato in questa terra storicamente
contrassegnata da una ricca e radicata tradizione cristiana. Chi
proviene da altri contesti culturali e appartiene ad altre tradizioni
religiose per potersi inserire con profitto nella società
italiana ed europea, mantenendo la propria identità, ha
certamente bisogno di avere un'immagine non deformata o falsificata
del Cristianesimo.
Il
senso profondo della nostra fede fondata sul Vangelo di Gesù
Cristo, quando è rettamente inteso, non è quello
di proporre un messaggio concorrenziale a quello delle altre religioni.
Nessuno di voi tema che conoscere qualcosa di vero e di giusto
riguardo alla fede cristiana possa comportare dei rischi per la
propria fede musulmana. E altrettanto deve valere per i Cristiani
nei confronti della tradizione coranica.
L'autentico
dialogo islamo-cristiano non è proselitismo e non ha come
obiettivo la conversione dell'altro alla propria religione. Esso,
nel più ampio quadro del dialogo interreligioso, persegue
innanzitutto lo scopo di una migliore conoscenza delle irriducibili
differenze tra messaggi e dottrine religiose, che sono e restano
molto diverse. In secondo luogo, sulla base di quei valori e principi
etici che le religioni si trovano a condividere, il dialogo persegue
l'obiettivo di promuovere forme di collaborazione nella ricerca
della pace e del bene comune per una più giusta convivenza
civile e sociale. La stessa laicità dello Stato e delle
nostre istituzioni pubbliche, sia nazionali che locali, è
una garanzia dell'esigenza che le religioni, positivamente presenti
sulla sfera pubblica, possano cooperare all'edificazione della
società, nel rispetto dell'ordinamento giuridico e delle
regole democratiche, al riparo da tentazioni di integralismo e
di fondamentalismo.
Mi
auguro che questi pensieri, che indirizzo in particolare ai Responsabili
religiosi delle diverse Comunità e Organizzazioni islamiche
presenti a Milano e in Lombardia perché se ne facciano
portavoce presso tutti i Musulmani, possano servire anche a dar
vita a forme d'incontro, intorno allo stesso tavolo, da parte
di Rappresentanti delle Istituzioni civili e Rappresentanti delle
Religioni.
Dio
Clemente e Misericordioso, Signore del cielo e della terra, conceda
a tutti voi pace e serenità, nella gioia della prossima
festa che vi attende.
1
ottobre 2007
+ Dionigi card. Tettamanzi
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UNA
MANO AMICA PER LA CITTÀ
può essere anche la tua, ti aspettiamo
Tra
non molto, pensiamo nel mese di novembre, diventerà operativa
in parrocchia l'iniziativa "Una mano amica per la città".
Il servizio, che avrà sede in via Lippi 15, gestito dalla
Fondazione Aquilone e dalla nostra Parrocchia, sarà un
punto di riferimento molto vicino alle case e alla vita quotidiana
delle persone anziane. Abbiamo scelto uno spazio esterno all'edificio
della parrocchia quasi come un "segno" per condividere
più da vicino le fatiche e le gioie, i problemi e le attese
del vivere quotidiano. Detto spazio, aperto tutte le mattine con
la presenza di due operatori sociali di Fondazione Aquilone onlus,
sarà un primo punto di ascolto e di aiuto per gli anziani
e per i loro familiari, spesso soli e disorientati nel far fronte
alla fatica dell'invecchiare.
I due operatori si avvarranno dell'apporto di una rete di volontari
che aderiranno al progetto e saranno impegnati a portare nelle
case l'aiuto possibile "alle persone che hanno una certa
età" e vivono talvolta la fatica di trovare una soluzione
ai tanti problemi piccoli e grandi che sorgono quotidianamente:
la spesa a casa, gli accompagnamenti per la cura della salute,
il disbrigo delle pratiche... Oltre all'aiuto porteranno il calore
di una presenza, di una semplice compagnia.
L'anima di questa iniziativa sarà la rete di collaborazioni
cui sapremo dare corpo.
Per questo abbiamo progettato un incontro.
Se vuoi saperne di più,
se hai un tempo,
piccolo o grande,
da dedicare,
vieni all'incontro.
Ti aspettiamo lunedì, 22 ottobre, ore 18, in parrocchia,
a conoscere e sostenere "UNA MANO AMICA PER LA CITTÁ"
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Ma ve le ricordate le vacanze?
Un
breve resoconto dei giorni di condivisione con l'oratorio a Spiazzi
di Gromo, tra fine giugno e gli inizi di luglio.
Gioco, preghiera, vita comunitaria. Questi i tre elementi che
hanno caratterizzato la nostra vacanza a Spiazzi di Gromo, in
provincia di Bergamo, dove abbiamo trascorso due vacanze con l'oratorio.
La
vacanza è stata suddivisa in due parti: la prima settimana
organizzata per i bambini della scuola elementare, la seconda
invece per i ragazzi delle medie e delle superiori.
Utilizzando
le risorse naturali, il posto offre anche alcune attrattive molto
divertenti come il percorso sugli alberi e la pista estiva per
bob.
La
prima attività è stata un'esperienza davvero unica
ma non solo in maniera positiva: alcuni bambini, infatti, si sono
spaventati molto, anche se hanno portato a compimento tutto il
percorso tra gli applausi generali!
Proprio
per questo motivo don Paolo ha preferito che la pista estiva per
bob la facessero solo i ragazzi più grandi e questi si
sono dimostrati responsabili e così tutti si sono divertiti
senza che nessuno si sia fatto male.
Una
parte molto significativa della nostra vacanza sono stati i momenti
di preghiera trascorsi insieme. Quando il tempo lo permetteva,
giunti alla fine delle nostre passeggiate, ci sedevamo in cerchio
e tutti finalmente calmi, ascoltavamo la parola del Signore; invece,
durante le frequenti giornate di pioggia ci ritrovavamo negli
spazi comuni dell'albergo.
Le
avventure di Pinocchio, rivisitate dal don per i più piccoli,
davano i temi di riflessione e preghiera durante la prima settimana;
per noi grandi, invece, i temi della libertà e della vocazione
ad essere uomini e donne vere, secondo il disegno del Signore,
hanno avuto come spunto la lettura del libro "Il gabbiano
Jonathan Livingston". Siamo anche riusciti a trascorrere
del tempo stando ognuno a riflettere su ciò che il don
ci aveva precedentemente spiegato in una mattina dedicata al silenzio
e alla preghiera.
La
sera, invece, a turno organizzavamo i grandi giochi: tra gare
di canto, ballo, teatro (!!!), giochi dell'oca, memory, gialli,
pubblicità ecc. certamente non ci si annoiava (forse qualche
volta si "litigava", ma fa parte del gioco
).
Una
parte importante delle nostre giornate era dedicata alle passeggiate,
almeno quando si poteva: erano molto stancanti, ma in questo modo
si passava più tempo insieme e ci si conosceva meglio,
quindi la sera tornavamo in albergo sfiniti ma accomunati da una
grande gioia: l'amicizia!!
Alessandra,
Ilaria e Michela
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Nella
Comunità parrocchiale:
hanno
ricevuto il Battesimo
CECILIA
SERENA DE SANTIS
MARGHERITA SCALA
LAVINIA ISELLA
ANDREA RENATO ROMANO LACONCA
ALICE MAURI
CATERINA BONAZZI
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si
sono uniti in Matrimonio
RICCARDO
ENRICO LABADINI e CLAUDIA CONCI
MASSIMILIANO ETTAMI e MICHELA ARGENTI
PAOLO ARCELLI e PAOLA FRANCESCA COLOMBANI
UELI MEIER e ROBERTA DE FRANCO
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abbiamo
affidato ai cieli nuovi e alla terra nuova
ELVIRA
RUBANI (a. 78); ADRIANA STROPPA ved. AIROLDI (a. 93);
PIERINA BARTOLI ved. STANZIANI (a. 93); GIACINTO DE PASQUA (a.
81);
ANDREINA RIGAMONTI ved. FERRARI (a. 81)
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