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Come
albero
notiziario
mensile parrocchiale
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OTTOBRE: GIORNATA MISSIONARIA MONDIALE
Poiché
le tue parole, mio Dio, non sono fatte
per rimanere inerti nei nostri libri,
ma per possederci
e per correre il mondo in noi,
permetti che, da quel fuoco di gioia
da te acceso, un tempo, su una montagna,
e da quella lezione di felicità,
qualche scintilla ci raggiunga e ci possegga,
ci investa e ci pervada.
Fa’
che, come «fiammelle nelle stoppie»,
corriamo per le vie della città
e fiancheggiamo le onde della folla,
contagiosi di beatitudine, contagiosi della gioia …
MADELEINE
DELBREL
da La joie de croire
Paris 1968, pp. 200-201.
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UNA
SOSTA CONTEMPLATIVA
L’Arcivescovo
ha indirizzato a tutti i fedeli della Chiesa ambrosiana una lettera
intitolata PIETRE VIVE che esordisce così: «Sento forte il bisogno
che questo anno pastorale sia vissuto da tutti come l’occasione
per una sosta contemplativa e rigenerante, un tempo di grazia
e di lode affinché, prima di immaginare altri passi da compiere
e altre iniziative da realizzare, possiamo anzitutto e insieme
riconoscere i grandi doni con i quali Dio ci raggiunge e rinnovare
con gioia il nostro cammino…». Questa scelta mi ha riportato alla
mente la prima lettera che nel lontano 1980 l’arcivescovo Martini
indirizzava alla diocesi, lettera sorprendente, intitolata La
dimensione contemplativa della vita. Ad una chiesa che si compiace
d’esser la più grande del mondo, singolarmente ricca di opere,
Martini chiedeva, come primo atteggiamento, una sosta contemplativa.
A distanza di venticinque anni l’arcivescovo Tettamanzi ci invita
a dare spazio nella nostra giornata alla contemplazione. Ma come?
La
prima condizione è il silenzio. Il silenzio che ascolta, che accoglie.
Scriveva Martini: «L’uomo nuovo, come il Signore Gesù che all’alba
saliva solitario sulle cime dei monti (cf. Mc 1,3; Lc 4,42; 6,12;
9,28), aspira ad avere per sé qualche spazio immune da ogni frastuono
alienante, dove sia possibile tendere l’orecchio e percepire qualcosa
della festa eterna e della voce del Padre… Ciascuno di noi è esteriormente
aggredito da orde di parole, di suoni, di clamori, che assordano
il nostro giorno e perfino la nostra notte; ciascuno è interiormente
insidiato dal multiloquio mondano che con mille futilità ci distrae
e ci disperde». Un grande filosofo contemporaneo, Martin Heidegger
ha acutamente indicato il silenzio come condizione essenziale
di ogni vera comunicazione. Il silenzio, ma non nel senso del
mutismo. Silenzio e mutismo sono due cose opposte. Si tratta qui
del silenzio che fa parte dell’ascolto, il silenzio che io faccio
per lasciar parlare l’altro. Il silenzio crea uno spazio per l’ascolto:
«Nel corso di una conversazione, chi tace può “far capire”, cioè
promuovere la comprensione più autenticamente di chi non finisce
mai di parlare... Tacere non significa però essere muto… Solo
il vero discorso rende possibile il silenzio autentico. Per poter
tacere l’uomo deve avere qualcosa da dire, deve cioè poter contare
su un’apertura di se stesso ampia e autentica. In tal caso il
silenzio rivela e mette a tacere la “chiacchiera”» (Essere e Tempo,
p. 264).
Abbiamo
così raggiunto il punto in cui il silenzio è all’origine dell’ascolto
e quindi della conversazione autentica. È del resto questa l’esperienza
più comune nella comunicazione. Solo chi sa ascoltare, appunto
far silenzio, è capace di comunicare autenticamente con l’altro.
Diversamente non farà che imporre all’altro se stesso, non farà
che tentare di assorbire l’altro nel proprio orizzonte. E questo
vale sia sul piano dell’esperienza interpersonale che sul piano
dell’esperienza religiosa. Quante volte i rapporti interpersonali,
pensiamo alla vita di coppia, sono resi difficili e conflittuali
appunto dall’incapacità ad ascoltare l’altro, dalla sottile prepotenza
che tende a ridurre l’altro a me invece che rispettarlo nella
sua singolarità e alterità. Quante volte uno spirito di dominio
rende impossibile la comunicazione interpersonale proprio perché
non sappiamo ascoltare, non abbiamo un vero atteggiamento contemplativo
che rispetti l’altro, non prevarichi su di lui piegandolo alla
nostra presa. Uno stile di silenzio contemplativo è necessario
per l’autenticità della comunicazione e quindi della relazione.
Anche l’esperienza religiosa, il nostro rapporto con Dio può essere
alterato dalla nostra incapacità al silenzio, all’ascolto, dalla
nostra pretesa di fare prevalere le nostre parole, il nostro io.
Il silenzio contemplativo è la prima condizione perché l’ALTRO
con il quale entro in comunicazione sia rispettato nella sua alterità,
sia ascoltato. Chi, nella fede, fa l’esperienza ardua ma necessaria
del silenzio contemplativo diviene capace di stare di fronte all’altro
nel pieno rispetto della sua singolarità, diviene capace di comunicazione
autentica. Dovremo trovare in questo anno occasioni propizie al
silenzio contemplativo. In questo anno apriremo spazi di silenzio
e ascolto nella nostra chiesa, anche con l’aiuto della musica.
don
Giuseppe
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Ogni
martedì dalle 20.45
per circa un’ora un gruppo di giovani si raccoglie nel silenzio
della nostra chiesa per una preghiera di intercessione per
la pace.
Saranno lieti di condividere con altri, giovani e no, la
loro esperienza.
Ogni
primo venerdì del mese dalle 17 alle 18
sosta contemplativa davanti all’Eucaristia.
Ricordiamo
agli adolescenti e ai giovani
le “Scuola della Parola” decanali a loro rivolte:
prima e seconda superiore: 13, 20 e 27 novembre ore 18
presso la parrocchia di Casoretto
giovani: 26 novembre, 3 e 10 dicembre ore 21
presso la parrocchia di S. Spirito
Ai
giovani ricordiamo poi gli Esercizi Spirituali
in Sant’Ambrogio il 16 - 17 - 18 novembre
Fin
da ora vi invito a prendere nota
di tre pomeriggi di preghiera e condivisione
che potremo vivere alla Villa Sacro Cuore di Triuggio presso
Monza:
sabato 12 dicembre, sabato 13 marzo e sabato 12 giugno.
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PIETRE E VOLTI DI 75 ANNI DI STORIA
Riportiamo il testo dell’omelia pronunciata da s.e. Mons. Carlo
Redaelli in occasione della celebrazione eucaristica per i 75
anni della nostra parrocchia, sabato 10 ottobre 2009.
Qualche
tempo fa ho trovato per caso una fotografia degli anni ‘20 di
questa zona. Si vede questa chiesa così come era prima del rifacimento
e dei più recenti ampliamenti e dietro di essa il villaggio dei
lavandai con lenzuola e panni stesi sugli appositi filari, un
villaggio denominato “Cascine Doppie” che sorgeva nell’area fra
via Nöe, via Pascoli, viale Romagna. Nella foto si intravvede
il tracciato di viale Romagna con solo le file degli alberelli
appena piantati e senza case sui lati e sullo sfondo i primi edifici
del Politecnico e in basso lo stabilimento Bianchi.
Quante cose sono cambiate da allora in poco meno di un secolo!
Il villaggio dei lavandai che si è spostato a Segrate nel quartiere
ancora oggi chiamato Lavanderie, molte case costruite, il completamento
di “Città Studi”, il dramma della guerra che ha colpito anche
l’edificio qui vicino dove c’erano le suore, le fabbriche chiuse
e il sorgere di palazzi residenziali, eccetera. E in questi anni
la nascita e poi la crescita di una popolosa parrocchia attorno
a questa chiesa dimostratasi da subito piuttosto piccola, ma non
per questo meno sentita come la propria casa.
Non tocca a me in questo momento fare la storia degli ultimi 90
anni e neppure dei 75 anni di nascita di questa parrocchia. Qualcuno
ci ha già pensato ed è stata riproposta su “Come albero” e qualcuno
lo farà in futuro. Spetta a me, invece, partendo dalla Parola
di Dio che abbiamo ascoltato, offrire qualche pista per la nostra
riflessone e la nostra preghiera.
È naturale partire dalla seconda lettura che parla della Chiesa,
della comunità, usando il paragone del campo, ma soprattutto dell’edificio,
l’edificio di Dio. Un edificio – quello di questa comunità parrocchiale
– sorto grazie all’impegno, alla testimonianza evangelica, alla
vita cristiana di molti: sacerdoti, religiose, catechisti e catechiste,
educatori dell’oratorio, responsabili e operatori dei vari gruppi,
laici e laiche impegnati, ma anche semplici fedeli – ma il termine
“semplici” non è per niente riduttivo, perché tutti siamo anzitutto
battezzati e quella è la prima e vera dignità nella Chiesa, come
ci ricorda il nostro Arcivescovo nella sua lettera Pietre Vive
–.
Il primo sentimento di stasera è quindi quello del ringraziamento.
Un grazie al Signore, un grazie alla Madonna del Rosario di Pompei,
particolarmente venerata in questa chiesa, un grazie a San Giovanni
Battista che dà il nome alla parrocchia con quella qualifica “in
Laterano” che ci collega immediatamente con Roma e con il Santo
Padre dandoci un orizzonte universale che va al di là di queste
nostre strade.
L’edificio della Chiesa, però, è sempre in costruzione e ora spetta
a voi continuare in questo impegno sulla base del lavoro di chi
vi ha preceduto, ma senza mai dimenticare – e Paolo ce lo ricorda
con forza nella sua lettera – che il fondamento è Cristo. O si
costruisce su di lui, che è la nostra roccia, o si butta via tempo,
energie, sogni, progetti e alla fine tutto crolla.
Occorre allora, fondandosi su Gesù, continuare a edificare questa
comunità come comunità che vive il Vangelo, che testimonia in
questo quartiere l’annuncio del Risorto, che accoglie con apertura
e gioia i nuovi venuti, che è attenta a tutte le età, che soccorre
ogni povertà.
E se è giusto essere riconoscenti verso il passato e mantenere
le cose belle che ci sono state trasmesse, non bisogna mai dimenticare
che il Vangelo è sempre una realtà nuova, che lo Spirito è fuoco
che infiamma i cuori sempre in modo nuovo ed è vento che sospinge
sempre al largo, al di là delle nostre attese e dei nostri progetti
e del nostro limitato coraggio. Bellissima l’esortazione del profeta
nella prima lettura: «Non ricordate più le cose passate, non pensate
più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio
ora germoglia, non ve ne accorgete?». Ovviamente il profeta non
vuole che dimentichiamo il passato, ma che non restiamo bloccati
a guardare indietro invece di aprirci con fiducia e con impegno
al futuro. Se la Chiesa di Dio è un edificio, essa è anche paragonabile
a un campo: vi accenna Paolo, ma è soprattutto il Vangelo che
ce ne parla. Tre parabole che ben conosciamo, soprattutto quella
del piccolo seme che diventa un grande albero e che da anni è
riferimento per il piano pastorale di questa comunità.
Mi fermo solo sulla parabola che siamo abituati a chiamare della
zizzania, ma che forse dovremmo chiamare della pazienza. Certo
è una pagina che ci richiama al realismo, un realismo però evangelico:
nel campo non c’è solo buon seme destinato a diventare grano,
ma c’è anche la zizzania. Questo vale nel campo del mondo, ma
anche in quello della Chiesa – compresa questa comunità –, ma
pure e forse soprattutto nel campo che è il nostro cuore, che
vede la compresenza di semi e frutti evangelici e di semi e frutti
di peccato e di egoismo.
Occorre allora essere realisti, sapendo che la vita è piena di
doni e di grazie, ma anche di fatiche, di sconfitte, di peccati.
Un realismo però che, se vuole essere evangelico, deve essere
soprattutto pieno di pazienza, di speranza, di misericordia. Una
misericordia non a buon mercato – perché è costata la croce di
Cristo –, ma una misericordia autentica che lascia al Signore
il giudizio ultimo sulle persone e offre continuamente a chi è
ferito nel cuore una parola di consolazione, di perdono e insieme
di esigente verità sulla vita. Perché la vita è una cosa seria,
non è un gioco o uno spettacolo e per questo ci sarà un giudizio.
E la gente di questo quartiere, e in generale di Milano, ha continuamente
bisogno di queste parole, che sono quelle di Gesù.
So che la vostra parrocchia ha una particolare attenzione a tutto
ciò. Continuate con coraggio, con pazienza, offrendo ascolto,
attenzione, accoglienza con una limpida testimonianza delle esigenze
del Vangelo, che sono quelle dell’amore. Perché niente è più esigente,
niente è più impegnativo dell’amore di Dio: chi si sente amato
senza misura non può, nella sua fragilità, che riamare senza misura.
Auguri.
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QUALI
DOMANDE LA CITTÀ RIVOLGE ALLA CHEISA
Pubblichiamo
una nostra parziale trascrizione dell’intervento di Ferruccio
de Bortoli dello scorso 8 ottobre non rivista dall’Autore.
Talune tesi hanno suscitato valutazioni critiche che certamente
saranno oggetto di ulteriori riprese.
Conservo
un ricordo molto bello dell’incontro che facemmo lo scorso marzo
dedicato alla crisi finanziaria. Alcuni di voi nei mesi successivi
hanno intrattenuto con me una fitta corrispondenza che mi ha messo
duramente alla prova e mi ha anche costretto ad andare a ristudiare
alcune cose per non dare risposte sbagliate. Il tema di questa
sera: Quali domande la città rivolge alla chiesa, mi coinvolge
nel mio ruolo di direttore del «Corriere della sera» perché con
questo quotidiano cerchiamo di raccontare una città che ha dei
problemi e che dovrebbe riscoprire il suo orgoglio. Io sono innamorato
di questa città perché è la mia città, ma qualche volta mi arrabbio
con i milanesi perché non difendono la loro città che ha molti
problemi, molte fasi convulse, che per certi versi non è quella
che noi ricordiamo, quella nella quale siamo cresciuti. Non riconosciamo
più alcuni angoli della Milano che ha accompagnato la nostra giovinezza,
credo che in parte si sia perduto un rapporto umano più diretto
che faceva parte delle caratteristiche di questa città. Credo
che anche guardare al passato senza inutili nostalgie ci possa
aiutare a comprendere meglio il presente.
Questa è certamente una città solidale nella quale il volontariato
cattolico e laico ha potuto espandersi portando un messaggio di
solidarietà che però stentiamo a riconoscere quando parliamo di
questa città. È certamente una città importante sul piano dell’eccellenza
biomedica, capitale industriale, finanziaria e dei servizi. Io
la descrivo come una città a cerchi concentrici. Ci sono a Milano
tante città racchiuse in una e nei suoi anni migliori la città
ha saputo parlare a questi cerchi concentrici creando momenti
comuni. Così negli anni ‘50 e ‘60. Gli anni ‘70, come ricordiamo
sono stati drammatici. Mi domando come abbiamo fatto a superare
quegli “anni di piombo”: credo sia stato un miracolo di pazienza,
di convivenza e anche la dimostrazione che la società milanese
nel suo complesso conserva una serie di valori di fondo che la
mettono al riparo da quelle patologie che infatti ha superato.
Ovviamente nei momenti migliori vi sono stati vari collanti. Quello
della cultura, quello dell’apertura internazionale, del progresso
scientifico …
Nella storia di questa città, nell’ultimo secolo e mezzo, si trovano
alcuni momenti in cui la comunità milanese ha saputo darsi degli
obiettivi con un’ambizione molto forte. Ma in questi ultimi decenni
abbiamo perduto l’ambizione di consegnare ai nostri figli una
città migliore. E questa è la conseguenza di una città invecchiata.
È importante che questa città sappia ritrovare l’ambizione di
quello che vuole essere. L’Expo 2015 può essere una grande occasione
ma non può essere solo una occasione edilizia o infrastrutturale,
non può essere solo l’accumularsi di cose, a questo deve accompagnarsi
un’idea di città e un messaggio che Milano vuole consegnare al
mondo. Perché se sarà solo un’occasione per costruire palazzi
la sprecheremo.
Arrivo
così al nostro tema, alle domande che la città rivolge alla chiesa
e il compito che la chiesa ambrosiana deve assumersi. Io credo
che qui manchi uno scatto di orgoglio, ma soprattutto la lucidità
di individuare quale potrà essere il percorso di questa città.
Qui sono venuti meno, negli ultimi anni, i capisaldi di questa
città. La borghesia milanese ha cambiato pelle molto rapidamente.
Ha smesso di avere un ruolo guida, non ha avuto il coraggio di
darsi un ruolo politico. Ha delegato e delegato male. Quando questa
era la capitale industriale era molto più facile condividere una
serie di valori. Quello del lavoro, per esempio. Nell’ambito della
fabbrica c’erano valori condivisi e dall’imprenditore e dai lavoratori.
Questo lo si è un po’ perduto. Questa città è diventata più arida,
più egoista, cosa che non è mai stata nella sua storia più recente.
Il passaggio dall’industria alla finanza ha comportato un mutamento
antropologico. Come vogliamo disegnare il futuro della nostra
città? Una città che ha un cuore o che si in cammina verso un
declino? Siamo in una fase dello sviluppo socioeconomico del nostro
Paese e questo è particolarmente visibile nell’economia del Nord-Est
in cui sta arrivando alla pensione quella generazione che ha creato
imprese dal nulla ma che non sempre è in grado di assicurare la
successione. Una generazione che è passata dall’essere operaio
a diventare imprenditore di se stessi e deve ora passare il testimone
a dei figli che probabilmente non hanno avuto gli stessi stimoli.
Siamo in una fase nella quale la tentazione di tirare i remi in
barca è molto forte, perché un terzo della popolazione ha più
di 65 anni. È una società che ha un grandissimo passato ma forse
è tentata di non avere un buon futuro.
Il passaggio da quella che è stata la nostra Milano a quella che
sarà la Milano dei nostri figli è la prima domanda che poniamo
alla Chiesa. Milano è una città disegnata per i giovani? Tende
piuttosto a respingerli, tanto è vero che i giovani si rifugiano
nella notte. Questa è una città troppo competitiva e non dimentichiamo
che questi ragazzi oggi devono affrontare una competitività a
livello internazionale che è feroce, cosa che noi non avevamo.
Deve affrontare la concorrenza della seconda generazione di immigrati.
Ci sono figli di immigrati che ormai hanno studiato, qualche volta
più dei nostri figli perché hanno un sacro furore di farsi strada,
cosa che i nostri figli qualche volta hanno perso. Per la prima
volta, dopo tanti anni, i nostri figli rischiano di stare peggio
di noi. Noi abbiamo migliorato le condizioni delle nostre famiglie
e generalmente i nostri genitori erano molto orgogliosi di noi.
Lo saranno anche i nostri figli nei nostri riguardi? Non so. Però
è un problema che sottovalutiamo. Ci deve essere un ricambio maggiore.
Io stesso occupo un posto che poteva esser dato ad una persona
di vent’anni più giovane di me e probabilmente sarebbe stata una
scelta felice. Quando c’è un cambiamento tecnologico molto forte
è chiaro che lo vivono meglio coloro per i quali questo cambiamento
è come il liquido amniotico nel quale sono nati. La prima domanda
allora è: questa città vuole essere aperta ai giovani? Le nostre
sette università hanno una buona percentuale di studenti stranieri
ma certo non al livello delle università francesi o inglesi.
Un
altro dei valori che noi abbiamo perso è quello delle ragioni
per le quali stiamo insieme. Voglio ringraziare don Giuseppe e
soprattutto questa parrocchia per la sua presenza come comunità
in una città dove tutti possono esser interconnessi con il resto
del mondo ma spesso sono soli. Il nostro vicino è spesso un estraneo,
non lo vedo nemmeno. Ecco un’altra domanda che rivolgo alla chiesa:
come rispondere alla solitudine che è propria della modernità?
Viviamo una vita intensa, caotica, qualche volta divertente ma
spesso priva di senso. Lo confesso: io ho un lavoro interessante,
certamente ben retribuito ma spesso mi chiedo quale è il senso
che do alla mia giornata? Mi sento oppresso dal fatto che il mio
lavoro non è contestualizzato in una comunità che dà valore a
quello che faccio. Una delle grandi risorse di Milano era che
i dipendenti comunali o chi lavorava alla Pirelli o alla Montedison
avevano comunque l’idea di vivere in una comunità e di fare qualcosa
per la propria comunità. Un piccolo esempio: se ho il senso di
vivere in una comunità allora mi prendo cura degli spazi comuni
che sono anche miei. Milano è invece una città dove gli spazi
privati sono tenuti benissimo e quelli pubblici malissimo. In
altri Paesi, per esempio in Inghilterra, avviene esattamente il
contrario. Noi abbiamo tanti concittadini che sono tali solo dal
punto di vista anagrafico ma che dal punto di vista della partecipazione
alla vita pubblica sono degli estranei. Solo riscoprendo la forza
contagiosa del proprio essere comunità si ritrovano le ragioni
per le quali stiamo insieme.
Ritrovare
queste ragioni è decisivo per affrontare la sfida della multi
etnicità. Come sarà questa città quando saranno integrate persone
che appartengono alle più diverse etnie? Milano è, suo malgrado,
un laboratorio di multietnicità. Prima esistevano tante Milano
concentriche che però erano costituite da persone che parlavano
la stessa lingua, anzi lo stesso dialetto. Milano a cerchi concentrici
ha saputo far diventare gli ospiti più milanesi degli stessi milanesi.
Questa è stata la sua forza. È questo un tema sul quale nessuno
di noi ha grandi certezze. Dobbiamo essere in grado di gestire
una società multietnica non subirla. Ho su questo tema una posizione,
credo, leggermente diversa da quella della Chiesa ambrosiana.
Ritengo ci debba essere severità ma al tempo stesso un sistema
premiale per coloro che si comportano bene. Se l’immigrato non
pensa che il cittadino che sta a Palazzo Marino, possa essere
domani uno di loro, come è avvenuto negli Stati Uniti, probabilmente
non si integrerà mai. È mia personale opinione che aspettare i
18 anni per dare la cittadinanza sia scelta sbagliata perché temo
che questa attesa possa produrre una forma di estraneità, se non
di odio. Noi dobbiamo esser in grado di gestire questa società
multietnica però senza trasformarla in una società disordinatamente
multiculturale perché le tradizioni, i valori sono i nostri, quelli
di una società aperta che sa accogliere mettendo alla prova. Io
mi devo meritare la cittadinanza che non è un diritto quasi innato
ma l’esito di un percorso. Così è stato nella storia di questa
città: gran parte dell’imprenditoria e della finanza è stata fatta
da stranieri e anche sant’Ambrogio era nato in Germania…
La grande forza di questa città è stata di saper amalgamare, se
invece ci facciamo amalgamare i nostri valori si perdono. Questo
lo dico con grande forza e questa è una domanda che la città rivolge
alla chiesa. Io credo che la capacità di amalgamare nella solidarietà
sia una forma evoluta di pensare al futuro della nostra città.
Mi rendo conto che questo è un passaggio delicato sul quale si
potrebbe discutere. Credo sia questa la domanda più angosciosa
che la comunità civile deve accogliere o scontrarsi con un flusso
migratorio che non può regolare ma che può prevedere. Può scegliere
quale sarà la propria forma di città, deve avere l’ambizione di
disegnare un percorso e anche di attrarre i talenti migliori,
perché quando una società non è più capace di questa attrattiva
allora comincia il suo declino. Deve soprattutto ritrovare il
senso dello stare insieme e questo anche grazie anche all’insegnamento
della Chiesa.
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GLI ULTIMI GIORNI DI DON CARLO GNOCCHI
Quando
domenica 25 ottobre in piazza del Duomo la Chiesa proclamerà ‘beato’
don Carlo Gnocchi io non potrò non ricordare gli ultimi due mesi
della sua vita: gennaio e febbraio 1956. Don Carlo aveva chiesto
all’arcivescovo Montini di esonerarmi da ogni incarico perché
potessi stare con lui fino alla morte ormai imminente. E così
in quei due mesi di cinquantatré anni fa sono stato con don Carlo:
per me è stata l’esperienza più forte e più significativa della
mia umana vicenda: io e lui soli. Le suore della Clinica Columbus
sapevano che non dovevano disturbarci. I nostri incontri erano
normalmente due al giorno: uno al mattino e uno nel tardo pomeriggio,
“perché voglio prepararmi a vivere la mia morte ricordando e rivivendo
la mia vita”. Ogni incontro aveva un tema: la mia adolescenza,
il mio periodo di seminario, la mia mamma, la mia fede, la presentazione
di me a te e di te a me... Tutti temi che abbiamo approfondito,
parlandoci a cuore aperto. Gli incontri terminavano sempre con
un ascolto musicale, quasi sempre musica classica e canti degli
Alpini. Li ho ancora tutti dentro, sentiti assieme, cantati assieme.Così
ho vissuto i suoi ultimi due mesi. Chiesi all’arcivescovo Montini
di avvertire don Carlo della fine imminente. Ricordo quando uscì
dalla camera e aveva gli occhi pieni di lacrime. Entrato da don
Carlo gli dissi: “Sei davvero importante don Carlo, hai fatto
piangere il tuo vescovo”. E lui: “Non sono importante, sono un
uomo che sta per morire”. Gli proposi allora di ricevere quella
che allora veniva chiamata l’Estrema Unzione. Mi disse: “Chiama
don Sergio”. Ricordo bene: mentre monsignor Sergio Pignedoli,
vescovo ausiliare e grande amico di don Carlo stava per iniziare
il rito, il cappellano della Clinica suggerì: “Eccellenza, proceda
per breviorem”. Nel linguaggio ecclesiastico voleva dire: usi
la formula breve che prevede la sola unzione sulla fronte omettendo
quella sulle mani e sui piedi. Don Carlo si alzò dai cuscini e
in milanese: “Cus’è, cus’è per breviorem? Don Sergio, cumincia
dai pè, in i pè ca m’an purtà a cà da la Russia”.
E
poi l’ultima Messa. Don Carlo ha voluto inventare tutto per la
sua ultima Messa. Volle mettersi la vestaglia blu, quella bella,
quella che metteva solo quando c’era la visita dei medici. Prima
il segno della croce, davanti al crocefisso che la mamma gli aveva
regalato per la prima Messa. Io all’altarino da campo, lui a letto.
Ha voluto che leggessi come prima lettura il capitolo 13 della
Prima lettera ai Corinzi: l’inno alla carità. Poi il passo del
vangelo di Giovanni: “Nessuno ha un amore più grande di colui
che dà la vita per le persone alle quali vuol bene”. Perché, diceva
don Carlo: “l’uomo è uomo solo se ama, un uomo aumenta il valore
e la pienezza della sua personalità solo quando agisce per amore”.
E nel suo Testamento ha scritto pensando ai suoi mutilatini: “Altri
potrà servirli meglio ch’io non abbia saputo e potuto fare, nessun
altro, forse, amarli più ch’io non abbia fatto”. Poi, prima della
consacrazione secondo il vecchio Canone, il “memento dei vivi”
e allora lui ricordava i suoi mutilatini, “la mia baracca”. Usava
proprio queste parole. Poi il “memento dei morti”: la mamma, il
papà, “non l’ho conosciuto bene, lo conoscerò in Paradiso” (don
Carlo aveva perduto il papà all’età di cinque anni). Poi la consacrazione.
Terminata la consacrazione aveva voluto che io portassi il nastro
con inciso un coro di monaci che cantava: “Adoro te devote…”.
La nostra messa è finita così. Ma dopo dieci minuti di silenzio
contemplativo, mi dice: “Manca ancora qualcosa”. “Carlo, credo
di indovinare, ascolta”. Gli ho fatto ascoltare Stelutis alpinis,
la canzone dei suoi alpini morti: “Se tu verrai un giorno su queste
pietre, dove mi hanno sotterrato, c’è un prato pieno di stelle
alpine, sotto di loro io dormo quieto”. Così l’ultima messa di
don Carlo.
Don
Giovanni Barbareschi
SPAZIOSTUDIO
Già
da diversi anni all’interno dell’oratorio è attivo uno Spaziostudio
gratuito dedicato a tutti i ragazzi delle medie e delle superiori.
Viene offerto un supporto scolastico, un valido aiuto allo studio
e un contesto sano nel quale relazionarsi con il gruppo.
Volontari
qualificati offrono una multidisciplinarità e la presenza di un
educatore professionale garantisce continuità.
All’interno
dello Spaziostudio si assistono i ragazzi nel percorso scolastico,
si presta particolare attenzione alle difficoltà in modo da proporre
un supporto adeguato e utile alla situazione.
Vengono
mantenuti contatti frequenti con le scuole presenti sul territorio
in modo da garantire una continuità educativa con la scuola stessa.
Risulta
fondamentale il rapporto con la famiglia in modo da poter sfruttare
al meglio l’intervento educativo.
Oltre
ai momenti dedicati alle attività scolastiche, Spaziostudio propone
momenti di svago, di gioco e di relazione con i ragazzi.
Spaziostudio
è aperto dal lunedì al giovedì dalle 15 alle 17
presso l’oratorio di San Giovanni in Laterano.
Per informazioni, iscrizioni, adesioni come volontario:
don Paolo Croci: 02.2363858; Bernardo Corbellini: 338.5684377.
mail: dadocorbellini@alice.it; paolo_croci@fastwebnet.it
Una
realtà preziosa nella nostra comunità:
CasAmica
L’Associazione
CasAmica Onlus gestisce a Milano, in zona Città Studi, tre Strutture
d’accoglienza aperte tutto l’anno (via C. Saldini 26 – via Fucini
3 – via S. Achilleo 4) attualmente per un totale di 84 posti letto.
Oltre 3.000 persone l’anno, 26.000 pernottamenti offerti, in favore
di tutte quelle persone provenienti da ogni parte d’Italia, accompagnate
da un parente, bisognose di cure e terapie prevalentemente oncologiche
presso i grandi Ospedali milanesi, in particolare l’Istituto Nazionale
dei Tumori e l’Istituto Neurologico Besta.
Gli ospiti sono persone che affrontano il “viaggio della speranza”,
quella speranza di trovare a Milano, nei suoi centri ospedalieri
di eccellenza, cure e risposte appropriate. Sono persone che,
per loro difficoltà socio economiche, si appoggiano alle Strutture
di CasAmica Onlus perché non potrebbero fronteggiare un periodo
troppo lungo lontano dalle proprie abitazioni, tanto meno permettersi
un albergo o una camera in affitto. CasAmica Onlus, con i suoi
60 volontari, si adopera per far sentire gli ospiti il più possibile
“a casa” in questo difficile momento della loro vita.
In loro “appoggio”, anche un’assistente psicologa ed un assistente
spirituale, due colonne portanti non solo per il malato e il parente
accompagnatore, ma anche per il volontario, che si trova molto
spesso a seguire casi assai difficili. L’impegno da parte del
volontario deve essere costante: si è attenti alle esigenze del
malato e del parente accompagnatore, si cerca di rendere meno
pesante la loro assenza dalla famiglia e dagli affetti più cari,
si offre loro compagnia e amicizia, li si affianca nel disbrigo
burocratico, oppure nelle commissioni di gestione quotidiana.
Le Strutture sono organizzate in forma di comunità-famiglia, in
cui si condividono spazi comuni. Ciò favorisce la solidarietà
tra gli ospiti e aiuta a mantenere un clima “di casa”. CasAmica
Onlus è nata oltre vent’anni or sono (1986) grazie alla illuminata
iniziativa di una Famiglia di imprenditori milanese, che volle
in questo modo onorare la memoria dei propri Genitori. CasAmica
non ha alcuna convenzione con enti pubblici e si autogestisce
grazie alla generosità di Aziende e Privati. Gli ospiti, se possono,
offrono un contributo alla Casa, altrimenti l’Associazione va
loro incontro per le tante necessità.
L’Associazione CasAmica Onlus, con le sue Strutture d’accoglienza,
non si prefigge solamente lo scopo di accogliere il malato in
difficoltà, ma anche di diffondere la cultura dell’attenzione
“all’altro”, offrendo un modello di accoglienza solidale, basato
sul volontariato, che tiene conto di tutte le componenti umane
della persona nella sua totalità e del nucleo familiare cui appartiene.
Progetto
“CASAMICA PER I BAMBINI”
Ha già basi concrete il progetto di realizzazione di una nuova
Struttura d’accoglienza dedicata principalmente all’ospitalità
di bambini e ragazzi ammalati, con le loro famiglie.
Una soluzione adeguata e un tessuto di relazioni umane, che aiuti
ad affrontare il momento drammatico della malattia, grazie a volontari
formati.
Oggi, CasAmica accoglie i bambini nelle stesse strutture degli
adulti e, pur tentando di riservare una particolare attenzione,
rimane grande il bisogno di spazi e situazioni a “misura di bambino”.
I bambini vogliono giocare, stare insieme, trovarsi a fare i compiti,
leggere o guardare i cartoni animati. Tanto colore, arredi consoni
alle loro esigenze, atmosfera serena contribuiscono a creare effetti
benefici anche sullo stato di salute del bimbo.
Sono previste 12 stanze doppie per 36 posti letto, con bagno e
la possibilità del terzo letto. In pratica: 465 mq di struttura
– 150 mq di sala comune – 75 mq di sala giochi – 25 mq di sala
studio. Sarà anche allestito un giardino esterno con i giochi.
Tutto questo comporterà un impegno economico di 1.300.000 Euro
di investimento.
Per
sostenere l’attività di accoglienza di CasAmica e per sostenere
l’attuale progetto della quarta Struttura si possono effettuare
donazioni fiscalmente deducibili a:
- Assegno bancario, non trasferibile, intestato a Associazione
CasAmica Onlus;
- Versamento su c.c.p. n. 34363499 intestato a Associazione CasAmica
Onlus
- Bonifico bancario c/c n. 1199 – Credito Artigiano IBAN IT 97S0351201621000000001199
intestato a Associazione CasAmica Onlus
- 5xMille: all’Associazione CasAmica Onlus inserendo il C.F. 97111240152.
Ogni forma di donazione è fiscalmente deducibile
Per info: CasAmica Onlus, via S. Achilleo 4 – 20133 Milano Tel.
02/76114720 e-mail: info@casamica.it - www.casamica.it
L'ORATORIO
ORGANIZZA UNA
FIERA DEI LIBRI E DEI CD USATI
sabato
7 e domenica 8 novembre
il
ricavato verrà devoluto per le attività de
LA
TENDA
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Nella
Comunità parrocchiale:
hanno
ricevuto il Battesimo
GUGLIELMO
PAPI ROSSI
GABRIELE CAVALLO
EMMA ANNA MARIA POLETTO
LUDOVICO MARIA POLETTO
ANTONIO PELLIZZARI
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hanno
celebrato il matrimonio queste coppie
che risiedono nella nostra Parrocchia
CRISTIANO
MASNAGHETTI e CHIARA GHIRARDINI a Grillano (Al)
MASSIMO MAURIZIO PIRAS e CINZIA ALBERICI a Rivergaro (Pc)
LUCA SECCO ed ELENA SCARABELLI a Moscazzano (Cr)
ALESSANDRO MARIO JOB e CRISTINA BEZZIO ad Argegno (Co)
PIETRO TUCCI e ROSA CAPUTO a Carvico (Bg)
DANIELE CATALUCCI e MARIE LOUISE BANG a Roma
ENRICO FERRARI e LAURA GANGITANO ad Inverigo (Co)
ALESSANDRO DE ROSA e ALESSIA DE NICOLA a Napoli
ALESSANDRO LORENZONI e ALESSANDRA PASCAZIO a Capurso (Ba)
PIETRO GIAMPIERETTI e MARZIA FAVOTTO a Chiaravalle (Mi)
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abbiamo
affidato ai cieli nuovi e alla terra nuova
ALBERTO ALBERTI (a. 80)
MARIA FIORE GONNELLA (a. 85)
CAROLINA MERLI (a. 86)
ERNESTA CORTINA (a. 97)
EBE LUISA COLOMBO (a. 85)
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