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Come
albero
notiziario
mensile parrocchiale
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Un
tempo per cominciare, un tempo per finire
Non ti nascondo che oggi, scrivendo, mi prende nodo d’emozione.
La sento pulsare ai polsi, arrivare agli occhi, bussare fino quasi
a inumidirli. Qualcuno, più temprato d’ascesi, più santo, saprebbe
dominare le emozioni, fors’anche zittirle. Confesso lontananza
da queste terre alte d’ascesi, e appartenenza a misure più umane,
più comuni, più terrene. Uomo. Come tanti.
“Uomini”
ha scritto qualcuno “non si nasce, ma si diventa.” Grazia delle
grazie, mi sono sempre detto, sarebbe diventare uomo come Gesù.
Sogno di una vita, sogno inseguito. E sono qui a confessare la
distanza. Che, posso sbagliarmi, penso non stia nell’assenza dell’emozione.
Emozione
anche per un foglio. Come - direbbe qualcuno - ti perdi per un
foglio? Con questo foglio ci fu un appuntamento, ogni mese. E
dura da più di vent’anni. Per una sorta di fedeltà, che non andava
violata.
Ebbene
c’è un tempo per cominciare, c’è un tempo per finire.
Che cosa ricordo del giorno in cui iniziai a scrivere su questo
foglio? Ricordo che era dicembre nella nostra città. Dicembre
di ventidue anni fa, il primo foglio. La città di dicembre, i
rumori, il passo affrettato, l’affollamento dei negozi a seduzione
di Natale, le facce intirizzite dai primi rigori dell’inverno.
Sentivo la stranezza della scrittura. Solitamente scrivi a volti
che insegui: ti si illuminano scrivendo, come se tu parlassi non
a pagine, ma a occhi. E apri il cuore. In quel dicembre fu un
parlarsi per un azzardo di fiducia. Che non poteva essere scontata.
Ma solo attesa, sperata. Nell’azzardo della gratuità di chi ti
legge.
Oggi
scrivo che è domenica di agosto. La città semivuota, alle finestre
bussa il rumore leggero del silenzio, un refolo di vento pulisce
il cielo, il ripetersi accorato a intermittenza di un richiamo
sonoro di allarme sembra dilatare gli spazi. La città vuota e
il cuore colmo. E visi e visi che navigano. Navigano a non finire,
per tratti di mare, nel cuore. Questo piccolo cuore. Ed è pomeriggio
d’agosto, pomeriggio di navigazione. Nel cuore.
C’è
un tempo per cominciare e c’è un tempo per finire. Ricordo il
primo foglio. Allora era un foglio verde. Non aveva un nome, suo.
Verde, perché il colore lo distinguesse dalle pagine bianche della
rivista della Diocesi “Il segno”, in cui era mensilmente ospitato.
Poi divenne foglio a sé. Lo chiamammo “Come albero”. E non era
solo desiderio di dare un nome, a fuga da anonimato. Non era un
nome qualunque. Il nome diceva un sogno, sogno di vangelo: il
seme e l’albero del vangelo. Lo ricordavo lo scorso mese, ripercorrendo
la storia della nostra piccola cattedra dei non credenti. Era
più che nome, era un sogno.
Coscienza di una piccolezza, dichiarata: piccolo seme di senapa.
E desiderio di illimitatezza: i rami sognano, inseguono il vento,
inseguono il cielo, ospitano. Ospitano, punto e basta. In assenza
di porte. Ma tra i rami, disegnati per il vento, un nido, il piccolo
calore del nido. Siamo stati rami al vento? Siamo stati nido?
Mi
sono detto che il logo “come albero” poteva forse essere evocativo
anche di un cuore. Il cuore di un prete minore. Prete minore come
questo, che sta per lasciare. Cuore dunque “come albero”. Illimitatezza
e calore. Ospitalità. Anche per uccelli “migratori”. Gli uccelli
migratori, che mi ha ricordato in questi giorni un amico con una
poesia di un libretto di Haiku, che mi ha regalato:
uccelli migratori-
anche la casa dove sono nato
è oggi il tetto di una notte.
Ora
che lascio, più acuta si fa la coscienza di non essere stato abbastanza
l’“illimitato” dei rami che respirano il vento e il “calore” del
nido che accoglie. E dunque rimane a memoria la coscienza di avere
molto da farmi perdonare. Molto.
Ma, insieme alla coscienza dell’avara misura che ha segnato questo
mio ministero nella grande città, lo stupore per la grazia che
mi fu concessa. “Grazia”, la parola dice dono per cui trasalire.
E non certo merito da sbandierare.
Quante
volte in questi anni mi sono chiesto come fosse possibile contenere.
Contenere in questa misura limitata del mio cuore tante storie,
tanti cammini. Ospitare, anche per poco. E commuoversi ai voli.
Voli che non sempre bevono il cielo. A volte conoscono ferite
che risucchiano verso la terra. E ripartenze dolorose. Essere
nel nido e essere nel volo. Come poteva il cuore contenere? Ospitare?
Se non per “grazia”? Sarebbe dissacrazione, sacrilegio, ingenuità
imperdonabile attribuirne il merito alla propria misura. Tanta
e tale è la sproporzione tra il piccolo di un cuore e lo sconfinamento
delle mille e mille storie che sono state ospitate.
Ospitare
e inseguire, sia pure per un breve tratto, i voli. E sognare che
negli occhi degli uccelli, lungo rotte invisibili, fatte di vento,
sia rimasta l’attrazione per Gesù. E sia lui a condurre e a soccorrere
il volo. E non ne impallidisca mai la memoria nella sete degli
occhi. Lui. E nient’altro che il suo vangelo. Se fossi riuscito
a tanto o se questo in parte avessi almeno sfiorato, se questo
fosse rimasto nelle vene di donne e uomini con cui ho camminato,
mi verrebbe da esultare. Come per una grazia, la grazia delle
grazie.
La
sete di Gesù negli occhi. Dentro i voli, i voli della vita. La
sete che ci salva. Salva dal fuoco fatuo, pallido delle idolatrie,
civili e religiose.
Delle
mille e mille e mille storie che mi hanno emozionato in questi
anni, storie di voli, che hanno traccia nel cuore, vorrei qui
ricordare, su questo foglio ultimo, simbolo di tante altre, quella
di una donna che qualche anno fa venne a cercarmi, per via che
un giorno le era capitato di ascoltare il mio nome ad una trasmissione
e l’aveva annotato. Mi raccontò come, poco tempo prima, in una
delle sue notti, forse la più imbevuta di disperazione, a un tratto,
inaspettatamente, in lei, che da trent’anni non metteva piede
nelle chiese, proprio in lei, nella sua mente, fosse sbucata all’improvviso
una invocazione, piccola come brivido di luce nella notte. Questa:
“Dì una sola parola e sarò salva”. “Trovai” mi disse “la pace.”
Provo ancora emozione al racconto. Non mi si cancellerà tanto
facilmente dagli occhi quella notte, la risposta di luce al grido
disperato di una donna, lo stupore per il filo che, dopo anni
e anni, la ricondusse a Gesù, a una invocazione del vangelo, lo
stupore per un filo ancor più esile, quello di una trasmissione
che aveva condotto a me quella donna.
Che
ne sai tu del volo degli uccelli? E come puoi augurarti che unica
sia la loro rotta nel cielo? Niente imprigionamenti. O sequestri
in rotte predeterminate. Purché rimanga sete di Gesù e della sua
parola negli occhi, nelle rotte per il cielo. Ho osservato in
questi anni, stupendomi, mille e mille e mille rotte nei cieli.
Forse
è ora che chiuda la pagina di questo foglio. C’è un tempo per
aprire e c’è un tempo per chiudere. A riaprire questo foglio sarà
un amico, don Giuseppe Grampa. E ancora sono qui a registrare
la bellezza di un filo: la conoscenza viene da lontano. Quando
ero ancora giovane prete, ebbi l’avventura di conoscere, in anni
non dimenticati, la sua famiglia, in una parrocchia di Busto Arsizio.
Mi sono rimasti amici, da allora, lui, il fratello, vescovo a
Lugano, i suoi. Sarà lui ora a seguire e a sorprendersi ai voli.
C’è
un tempo per cominciare e c’è un tempo per chiudere. Di solito
si celebra la bellezza del cominciare. Meno, quasi mai, la bellezza
del chiudere. Da bastian contrario come sono, vorrei dire che
c’è bellezza, bellezza da assaporare, anche nel chiudere: proprio
allora ti è dato sentire quanto del popolo, con cui hai camminato,
ti sia rimasto nelle vene. Quanto dei loro visi, dei loro voli
pulsino in te! E misuri anche quanto le loro storie ti abbiano,
per grazia, aiutato. Aiutato anche ad essere prete, prete un po’
meno “prete”, lontano da derive clericali.
Così,
chiudendo, il pensiero va a tutti voi. Come l’apostolo Paolo,
ma da smisurata distanza, vorrei dirvi: “La nostra lettera siete
voi, lettera scritta nei nostri cuori… scritta non con inchiostro,
ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma
sulle tavole di carne dei vostri cuori” (2 Cor 3,3). La mia lettera,
siete voi.
C’è
una bellezza da assaporare anche nel chiudere. È quella che ti
assale quando osservi il viso di coloro con cui hai diviso giorni
e notti e ti prende stupore per come sono cresciuti nel viaggio,
dovrei dire, per come sono cresciuti all’ombra della Parola di
Dio. Non sono imprigionati né potranno più esserlo. Non sono schiavi,
di niente e di nessuno. E’ come se la Parola di Dio li avesse
liberati dalle mille vischiosità mondane ed ecclesiastiche. Li
senti maturi e liberi, come Dio vuole i suoi figli. Uomini e donne
che onorano la libertà della coscienza, l’impronta più alta del
Dio in noi.
Proprio
sapendo di questa mio profondo convincimento che la vera lettera
siete voi, “grandi” sono stati i miei collaboratori più vicini
a non cedere al rituale in uso quando un prete se ne va. Quasi
sempre succede che si vada ad immaginare pubblicazioni patinate,
spesso di maniera, per lo più enfatiche, con destinazione aria
chiusa di cassetti dimenticati. Loro invece, don Alberto, don
Paolo, don Giorgio e , con loro, i collaboratori che mi sono stati
vicini in questi anni, “grandi” nei pensieri del vangelo, mi hanno
risparmiato gli incensi fuori misura di un libro patinato. È altro
il luogo su cui scrivere, altro il luogo su cui Dio ama scrivere,
altro il luogo su cui noi scriviamo i nomi amati. Nomi che ci
accompagnano, per le rotte infinite dei cieli.
“La lettera siete voi.” E non ha pagine finite.
C’è
un tempo per chiudere e c’è un tempo per riaprire.
Per
riaprire in un luogo più segreto. Il luogo dell’anima.
don
Angelo
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LE
FRONDE E LE RADICI
Il
saluto di don Giuseppe a don Angelo
Cerco
nella memoria e scopro che i miei incontri con don Angelo sono
avvenuti grazie ad altri: grazie a mia sorella e al mio futuro
cognato che si preparavano al matrimonio sotto la guida di don
Angelo allora coadiutore nella nostra parrocchia di san Giovanni
a Busto Arsizio. La cura di don Angelo per questo momento decisivo
della vita - la preparazione al matrimonio - viene da lontano...
Poi altri amici mi parlarono di don Angelo trasferito come parroco
a Lecco. E infine mi hanno parlato di don Angelo in questi anni
i suoi scritti: l’ho incontrato nelle sue omelie; in alcuni piccoli,
preziosi libriccini di poesie; negli editoriali sul Notiziario
della sua parrocchia milanese. Dunque un incontro, una conoscenza
mediata da persone amiche e da parole scritte, sobrie e intense.
E
questo è davvero per me il tratto singolare della personalità
di don Angelo: manifestarsi attraverso la cura per le relazioni
con le persone e la cura per la parola, mezzo per lui privilegiato
di comunicazione e relazione. Non so se sono stato designato come
successore di don Angelo in ragione dell’antica amicizia che ci
unisce o per una sintonia che porta anche me a riconoscere alla
parola il ruolo decisivo nella costruzione di relazioni significative.
Sono
persuaso che la trama di amicizie che solo una parola limpida
alimenta sia il tesoro più prezioso che possiamo ‘accumulare’
nei nostri giorni. Me ne accorgo vedendo con quale sincero affetto
le persone in questi giorni accompagnano il congedo. In questi
giorni ho scoperto un’altra sintonia con don Angelo: entrambi
abbiamo il ‘pollice verde’ e ci prendiamo cura di fiori e piante.
Forse con una differenza: don Angelo guarda ai rami degli alberi
accoglienti per gli uccelli del cielo, non possessivi perché aperti
al vento che gioca con le fronde. Di un albero mi piace immaginare
le radici, profonde nella terra: le mie radici sono la mia storia
e le innumerevoli persone grazie alle quali sono quello che sono.
Nelle
mie radici riconosco anche don Angelo e le sue parole.
don
Giuseppe Grampa
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IL
VOLTO DI UN AMICO
Il saluto della comunità a don Angelo
Come
si ricorda la visita nella chiesa di san Giovanni in Laterano
in Milano che don Angelo Casati ha retto per ventidue anni?
Non
è detto che si debba essere entrati nell’edificio che si affaccia
su piazza Bernini, ora deturpata da un cantiere che ha provveduto
a segare gli alberi prospicienti proprio la chiesa della comunità
che vuole essere “come albero”.
Più che visitare si viene visitati: Angelo, per fedeltà al nome,
reca buone notizie, trasmette vangelo che varca le soglie e si
dissemina per le vie. “Ecco, in mezzo un angelo” (H. Banse).
Si è visitati nelle case quando c’è festa o c’è sofferenza con
una discrezione affettuosa e una disponibilità smisurata, ci si
incrocia nelle vie del quartiere, nelle strade della città, nei
sotterranei della stazione che ricorda l’orrore della deportazione,
sui sentieri di montagna e sulle piste del deserto, nel sole e
nel vento del figlio dell’uomo, nelle pene del dolore e dell’ingiustizia,
raccolte e accompagnate, “nei volti degli amici/la terra di
domani”.
“A
don Angelo che gli va incontro lieve e sorridente” (Abramo
Levi) che cosa può dire l’uomo comune e vero?
Forse
non c’è nulla da dire, nel silenzio delle cose, solo un sussurro
di sottile silenzio in cui cogliamo una presenza che procede,
precede, sopravviene e soccorre.
“Sei
la porta
non un muro
sordo
e invalicabile, Signore.
Non il fine corsa
ma l’introduzione.
E dimora
all’infinito migrare
una tenda:
ombre segrete,
parole dissepolte,
luce
che trema
sui volti”.
Un uomo che cammina, una comunità in cammino, un incrociarsi e
accompagnarsi di uomini liberi oltre gli steccati e il risentimento
delle appartenenze esclusive: è quanto abbiamo visto e conosciuto
in questo uomo, in questo luogo che si è fatto come albero,
nuovo, esemplare progetto pastorale, nuovo oratorio, giornale
nuovo e diffuso in ogni dove, sito informatico accogliente e frequentato,
cattedra dei non credenti, luogo di formazione per promessi sposi,
si è fatto odòs, si è fatto La tenda.
Nella
precedente parrocchia di San Giovanni in Lecco, La tenda era
la testata del giornale parrocchiale. Qui è divenuto il dono che
don Angelo lascia sulle strade del quartiere.
Da
questo venire incontro sulle strade del mondo si passa anche nella
chiesa come luogo di culto e di celebrazione. E anche i muri,
l’arredamento, il colore, lo stile dell’edificio si è reso “lieve
e sorridente”.
Anche
in questo caso si è risolto il prodigio di un sacro penetrato
dal santo, una crocevia di luci ed ombre, di croci e di fiori,
di lumi e chiarori che hanno trasformato questo quadrilatero irregolare
in casa di celebrazione della Parola, un festoso, sempreverde
e fiorito giardino.
Per anni che sembrano i più intensi della nostra vita abbiamo
visto e ascoltato don Angelo, profeta della parola e ministro
dell’Eucaristia. Per anni abbiamo gustato il tripudio della sintonia
con i nostri arcivescovi, della comunione con le chiese, della
condivisione cattolica davvero con le gioie e le speranze,
le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto…(GS
1).
Il
tripudio di una gioia senza confini ha abitato i nostri cuori
nei canti e nel silenzio alla comunione ed ha sorriso negli occhi
di don Angelo, accesi dalla luce dell’invisibile, indici dello
Spririto giusto, quello che non si autocelebra, ma rinvia sempre
alla Croce, all’albero che apre il cielo.
Non
si entra in questa chiesa, essa vi viene incontro. Salutare don
Angelo non si può, ci ha narrato che non c’è addio per gli occhi
e le mani abitati dalla memoria del Risorto, ancora Non il
fine corsa, ma l’introduzione alla fede che fa liberi.
Il
coro di grazie che don Angelo ha raccolto intorno a questa chiesa
è umile e grande, un coro fuori coro il continuo semplice
dono di sé che è entrato nella storia vera delle famiglie, delle
coscienze e di questo piccolo gregge.
Grande
teologo questo nostro parroco, come riconosceva la scrittura laica
di Giuseppe Pontiggia nell’introduzione alla seconda raccolta
di poesie di Angelo Casati, se teologia è conoscenza dell’amore
di Dio, è carità, parola e azione fecondante.
Ma
dove sta il novum, la novità del vangelo, la cosa sorprendente?
Sta nel seminatore, figura, in primis, di Dio. Sta in quel gesto
largo, noi diremmo, poco oculato, di uno che getta il seme senza
curarsi di dove finisca, cedendo, diremmo, alla logica dello spreco.
Se c'è da gettare un seme, sembra dire, segui la logica dello
spreco. La cosa che sorprende è questa. Sorprendente, se la confrontiamo
con la nostra logica di avveduti calcolatori. Noi guardiamo i
risultati immediati, e se non ci sono, chiudiamo. Concludiamo
che sono parole sprecate, è fiato sprecato, energie buttate al
vento. E che, dunque, la larghezza è ingenuità, somma ingenuità,
è perdere tempo: occorre selezionare il pubblico. Dio è diverso.
E quelli che credono in lui, ma credono veramente, credono in
quel gesto largo, senza parsimonia, un po' folle, del seminatore.
Giudicateli da come ragionano i credenti. Se il gesto è avaro,
dicono di credere, ma credono in un altro Dio, in un Dio diverso.
Perché lui, il Dio dei nostri padri, l'abbiamo sentito, è uno
che ha fiducia, scommette nella forza segreta della sua parola.
Per lui, non scende invano: "Come la pioggia e la neve scendono
dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra , senza
averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme a chi
semina e il pane a chi mangia, così sarà della mia parola uscita
dalla mia bocca: non ritornerà senza effetto, senza aver operato
ciò che desidero, senza aver compiuto ciò per cui l'ho mandata".
Gesto largo, gesto fiducioso. Mi ritorna alla mente e non finisce
di colpirmi una frase della seconda lettera di Pietro:"La magnanimità
del Signore nostro giudicatela come salvezza" (2 Pt 3, 15). La
magnanimità! Chissà se nella vita d'ogni giorno, io ci credo!
Credo che la salvezza sta nella magnanimità. E non nella meschinità.
(dall’omelia della XV domenica per annum, 13.7.2008)
CS,
Milano 4.9.2008
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Non violare
Non
violare questo cielo
chiaro,
il profumo della terra.
Non violare, ti prego,
il grembo del silenzio.
O non conosci
il sottile
fruscio del vento,
lo strusciarsi di fronda
su fronda in amore?
Io ascolto il fruscio
della terra.
Io so che se Dio viene
è in un sottile alito di vento
don
Angelo Casati
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FAGLI
SENTIRE COMUNQUE UN’AMICIZIA
omelia
di don Angelo nella ventitreesima domenica del Tempo ordinario
domenica 7 settembre 2008 (Ez 33, 7-9; Rm 13, 8-10; Mt 18, 15-20)
È
un problema della chiesa, ma non solo della chiesa. È un problema
della vita quotidiana: che cosa fare quando un fratello sbaglia?
Attorno a questo interrogativo si intersecano i pensieri delle
letture di oggi.
La
prima lettura, quella tratta dal profeta Ezechiele, rispondeva
con un’immagine, trasparente: “essere sentinella” con chi sbaglia.
Sentinella! Ma non perché tu sia chissà chi o chissà che cosa.
“Figlio dell’uomo” è scritto “io ti ho costituito sentinella per
gli israeliti”. Anzi, letteralmente, “figlio del terrestre”, uomo
fatto di fragile argilla. E allora, con il fratello che sbaglia,
essere consapevoli delle due cose insieme: che siamo fatti di
povera argilla, noi per i primi e, insieme, sentinelle. E dunque
lontani da ogni ombra di arroganza che ci fa sentire superiori
all’altro e, insieme, lontani da ogni ombra di viltà che ci fa
tacere.
Essere
sentinella - lasciatemi dire - significa vedere lontano. Una sentinella
guarda in avanti, scruta l’orizzonte futuro, cerca di sorprendere
segni nascosti. Le tracce di vita o le tracce di morte. Che sentinelle
saremmo se ci limitassimo a ripetere luoghi comuni, a registrare
le cose che sono sotto gli occhi di tutti? Ebbene avere occhi
che guardano lontano è servizio preziosissimo per l’altro e per
la comunità. Non lo è, quando siamo segnati da miopia dello spirito,
quando non vediamo al di là di un passo. Coloro che sono malati
di miopia, di miopia dell’intelligenza e dello spirito, se ben
ci pensate, non fanno opera di riconciliazione, fanno opera di
divisione.
Ogni
volta che penso a questa verità, alla mente mi riaffiorano le
parole di Danilo Dolci, che più volte vi ho ricordato. “Chi guarda
avanti dieci anni” diceva “pianta alberi; chi guarda avanti cento
anni, pianta uomini. Michele aggiunge: e chi guarda avanti solo
dieci minuti, pianta grane.”
E
noi con chi siamo? Quando un fratello sbaglia, guardiamo avanti
dieci minuti o dieci anni o cento anni?
E
così veniamo al vangelo di Matteo. Dopo il discorso della montagna,
dopo il discorso missionario, dopo il discorso in parabole, ecco
il discorso alla comunità, e il problema che cosa fare quando
un fratello sbaglia. Qui Matteo, forte dell’insegnamento di Gesù,
elabora per la comunità una sua procedura. Non è detto che le
procedure oggi debbano essere identiche a quelle dei giorni di
Matteo. Ma è estremamente importante sorprendere gli atteggiamenti
che sottostanno a questa procedura.
Il
primo atteggiamento, che mi sembra di leggere tra riga e riga,
è questo: l’appassionarsi di tutta la comunità alla vicenda dell’altro.
Non so se l’avete notato, spesso si sorvola: il “legare” e “sciogliere”,
che noi abbiamo attribuito esclusivamente a Pietro. “Legherai…
scioglierai”, qui, due capitoli dopo, è attribuito senza esclusioni
a tutti, a tutti i discepoli. Noi ne abbiamo fato un potere esclusivo
di alcuni, mentre tutti, secondo Gesù, abbiamo una parola che
può sciogliere da pesi che soffocano. Ognuno può dire all’altro:
“alzati e cammina”.
Il
secondo atteggiamento, che leggiamo tra riga e riga, riguarda
il clima che si deve respirare, anche quando c’è da correggere,
che è un clima di fraternità. “Se tuo fratello…” è scritto. E
ancora “se tuo fratello…”. Rimane fratello. Comunque.
In terzo luogo: è tale la passione che hai per il fratello, a
tal punto ti importa che le escogiti proprio tutte, le inventi
tutte, pur di non perderlo: “Ammoniscilo tra te e lui solo, prendi
con te una o due persone, dillo all’assemblea”. Noi ci fermiamo
molto prima.
Ma nella prassi - voi lo avete senz’altro notato - è sotteso anche
un insegnamento su uno stile di delicatezza: non mettere l’altro
in difficoltà, pubblicizzando; ammoniscilo tra te e lui solo.
Una norma che sottende il rispetto dell’altro, mentre spesso invece
norma è il pettegolezzo, la maldicenza. Spesso, capita anche nella
chiesa, lo stile è della denuncia, l’adire i superiori, senza
prima aver parlato a tu per tu con l’altro.
E infine una parola per interpretare il difficile monito: “Se
non ascolterà neanche l’assemblea, sia per te come un pagano e
un pubblicano”. A volte si è interpretata questa parola come un
farla finita. E dunque “scomunicalo!”. Ma come? Gesù non ha appena
finito di raccontare che il pastore non si rassegnerà mai a dare
per perduta una, neppure una, delle sue pecore? E allora cosa
pensare?
So
che la mia è un’interpretazione molto personale e forse anche
un po’ bizzarra. Ma mi sono fermato su quelle due parole: “Sia
per te come un pagano e un pubblicano”. Mi sono chiesto qual era
l’atteggiamento di Gesù verso i pagani e i pubblicani. Non si
diceva forse che era amico dei pubblicani e dei peccatori? Amico.
E allora ho prolungato la raccomandazione di Matteo. Mi sono detto:
“Sia per te, come erano per Gesù i pagani e i peccatori. Fagli
sentire comunque un’amicizia. Come la faceva sentire ai pubblicani
e ai peccatori Gesù. Comunque.
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Dio
sta nel dettaglio
Incontro
con Paolo de Benedetti alla Cattedra dei non credenti il 20 maggio
2008
È
bello che sia Paolo De Benedetti a concludere questi incontri
della Cattedra, con lui abbiamo cominciato, e tante altre volte
in questi anni generosamente ci ha regalato la sua presenza, la
sua sapienza…”
Sorride don Angelo con gioia, con affetto, sentimenti che circolavano
la sera del 20 maggio, tra i tanti accorsi nella sala dell’oratorio.
E la trattazione dell’argomento si è dipanata pian piano, con
quella leggerezza precisa ed insieme semplice, attraente che è
propria di PDB rivelandosi alla fine come una piccola summa di
temi biblici e teologici consegnati a noi quasi breviario di vita
e di fede.
Ha Doresh, colui che cerca e che vuol essere cercato
«Mosè
si accosta al roveto ardente, incuriosito: non sa, non vede, che,
nascosto dentro il roveto, Dio lo guarda, lo aspetta… Non è lassù
in cielo, tra le nuvole, è lì tra i rovi.»
C’è
silenzio intenso nella sala affollata.
«E ricordate» prosegue «la vicenda del profeta Elia, che obbediente
al comando del Signore, esce dalla grotta ed invano cerca Dio
nei grandi eventi naturali, infine lo troverà in una “voce di
silenzio sottile”. Un maestro rabbinico ha commentato dicendo
che Dio parla talvolta tra i capelli del tuo capo. E noi possiamo
aggiungere che tutta la storia biblica e postbiblica è un progressivo
passare dai tuoni ai silenzi sottili, dagli universali, chiamiamoli
così, ai dettagli.
Così evocata, risuona la parola del rabbì di Nazareth: “non temete,
tutti i capelli del vostro capo sono contati…»
Mitžvot
: ciò che conta è il mittente
E
poi Dio sta nei precetti, nelle mitžvòt. Ma cos’è il precetto?
«Sapete
che, secondo il calcolo rabbinico, i precetti sono 613 di cui
una parte positivi, ed una parte negativi, ma, di essi, alcuni
sono sospesi perché legati al culto del Tempio, che non c’è più.
Dunque non si tratta del Decalogo, che è una specie di riassunto,
le mitžvòt hanno a che fare con la vita quotidiana. Ad esempio
nel libro dei Numeri è scritto:“Il Signore aggiunse a Mosè: parla
ai figli di Israele e ordina loro che si facciano di generazione
in generazione fiocchi agli angoli delle loro vesti e che mettano
al fiocco di ogni angolo un cordone di porpora viola; avrete tali
fiocchi e quando li vedrete, quando li guarderete, vi ricorderete
di tutti i comandi del Signore per metterli in pratica, e sarete
santi per il vostro Dio”.»
Ecco come si fa ad essere santi: guardando i fiocchi, nei fiocchi,
nei tzitziòt, ti ricordi di Dio. Lo stesso per i tefillim, quelle
scatolette di cuoio che contengono frasi della Torah, che si legano
alla fronte e al braccio.
«Talvolta
è stato detto che in questi precetti c’è un valore metaforico,
oppure che esprimono norme igieniche, riti e costumi: ma poiché
per la tradizione ebraica l’uomo non è puro spirito, è sintesi
di anima e corpo, la centralità della corporeità fa sì che la
presenza di Dio sia sperimentata dall’uomo comune nella vita di
ogni giorno, nelle sue attività e ruoli di padre, di lavoratore.
L’osservanza di un precetto riporta la persona a far presente
Dio, a ricordarlo. In Deuteronomio a proposito del sabato è detto
“osserva il sabato”, in Esodo “ricorda il sabato”. L’osservanza
è strettamente legata al ricordo. Quindi, a guardar bene, ciò
che conta non è il contenuto del precetto, ma il mittente. Ed
è il mittente che si fa presente nel precetto, non l’azione concreta
che viene richiesta.»
Essere
un midrash vivente
“Dio
sta nel dettaglio” vuol dire anche, continua Paolo De Benedetti,
che lo possiamo trovare in una parola, in un nome: pensiamo ai
migliaia e migliaia di nomi dei bambini morti ad Auschwitz, che
sono scandititi uno dopo l’altro nella Galleria buia dello Yad
Vashem: «Sta soprattutto nei volti, nel volto dell’altro, l’altro
che mi è vicino, l’altro del mio condominio, non quello che sta
in Australia.
Infine Dio sta in ogni vivente del creato, una mosca, un verme,
un albero, gli occhi del nostro cane… E mi riconcilio con Paolo,
che,malgrado fosse ossessionato dalla Legge, dai precetti, nella
Lettera ai Romani ha detto quella cosa bellissima “tutta la creazione
geme nelle doglie del parto ed aspetta la redenzione finale…”
Paolo De Benedetti conclude richiamando il midrash evangelico
della donna che spazza tutta la casa alla ricerca della moneta
perduta. Così fa con noi il Dio che cerca e che vuol essere cercato:
ci affida il compito di essere a nostra volta un midrash vivente,
la realizzazione, nella nostra vita, del “settantunesimo senso”,
il nostro, della parola di Dio.
Franca
Ciccòlo
A Milano, il 7 settembre 2008
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Nella
Comunità parrocchiale:
hanno
ricevuto il Battesimo
FILIPPO
SACCHETTO
TOMMASO SACCHETTO
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abbiamo
affidato ai cieli nuovi e alla terra nuova
LUCIANA CABRINI (a. 83)
ROSA MOREA (a. 83)
FEDERICA RIZZI ved. BUSSOLATI (a. 90)
FULVIA CHIARA MUCCIOLI ved. TARCHI (a. 79)
ANDREA CAVENAGHI (a. 88)
GIUSEPPE RABBIA
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